Professor Yann Redalié, l’assemblea sinodale le ha tributato un caldo saluto per la sua emeritazione. Di cosa si tratta?
«Solitamente si utilizzerebbe il termine pensione, emeritazione è più elegante proprio perché, esplicitamente, riconosce i meriti di una carriera. Oggi “qualcuno” ha introdotto il termine “rottamazione”. Certamente questo arresto professionale, non spirituale, rappresenta una conclusione e un inizio. Passati i settant’anni di età non siamo dunque “baby pensionati” ma persone con un’età avanzata. Fattore che porta con sé, oltre alle esperienze positive di una vita, anche tutte le difficoltà che impone il passare del tempo. Vengono dunque meno le energie e anche la memoria. Oggi sento il bisogno di vivere più lentamente, di riappropriarmi del tempo che spesso si dedica al lavoro, agli impegni professionali che lasciano davvero poco margine alla scansione della vita privata. Sento anche il desiderio di rivedere, con calma, ciò che ho fatto nel passato, lezioni presso la Facoltà valdese di teologia di Roma, i percorsi di studi fatti con i miei studenti, insomma, mettere insieme tutto il materiale e magari raccoglierlo in pubblicazioni».
Lei è riformato: valdese, metodista?
«Una domanda legittima. Per sentirmi italiano mi sento valdese, questa appartenenza la vedo come una questione più identitaria che teologica; del metodismo invece amo la dimensione internazionale, per citare Wesley: “the world is my Parish”, il mondo è la mia parrocchia. Una visione che supera la centralità delle “Valli valdesi del Piemonte. Visione, quella che si respira nelle Valli, che spesso condiziona la discussione sinodale. La sociologia della chiesa delle città è molto diversa perché segnata dall’eterogeneità dei percorsi. Spesso si dice di un membro di chiesa che è “valdese nel Dna”, io non credo di esserlo. Provengo dall’esperienza maturata in una chiesa di Ginevra e da una famiglia ebrea poi convertita al protestantesimo, di ucraini fuggiti per poter studiare perché a Odessa non era permesso loro di farlo, poi diventati apolidi hanno deciso di comprare il cognome che ancora oggi conservo scegliendolo dal nome di una via».
In Italia però è più “famoso” essere valdese che metodista?
«Stranamente è così. I valdesi hanno però radici profonde nel tessuto culturale, sociale e teologico italiano, proprio a partire dalle valli, non deve dunque stupire. Mia figlia, candidata nelle passate elezioni a Bologna ha voluto esplicitare la sua appartenenza alla chiesa valdese».
Quali sono invece le sue origini?
«Sono nato nel 1946 in Francia, al confine del Belgio, e poi la famiglia si è spostata a Ginevra dove ho studiato all’Università dove ho avuto la fortuna di incontrare l’allora giovane – entrato in cattedra a 28 anni – professore di Nuovo Testamento, François Bovon; un maestro di vita, un amico e grazie a lui, che in tarda età, a 48 anni, ad intraprendere prima il dottorato in teologia per poi diventare a mia volta professore di Nuovo Testamento. Bovon già professore ad Harvard ha sempre tenuto dei corsi anche alla nostra Facoltà di teologia di Roma».
Prima di diventare «Prof», come si abbrevia in Italia, di teologia che cosa ha fatto?
«L’operaio in una fabbrica di cere per i pavimenti a Magonza in Germania. All’epoca, dopo il1968, molti di noi desideravano andare a lavorare nelle fabbriche proprio per sostenere il movimento operaio. In seguito sono andato a New York a studiare teologia, mentre John Lennon e Yoko Ono cantavano “Power to the peolple”. In seguito mi venne chiesto di sostituire in cattedra Bovon, ma non me la sentii».
Una vita intensa e moto variegata?
«Credo di non aver vissuto una carriera ma un percorso, direi un itinerario. Il Nuovo Testamento e l’esegesi hanno sempre appassionato e condizionato la mia vita, anche mentre svolgevo altre attività».
Che cosa l’affascinava?
«Quella “non contraddizione in termini” tra scientificità e teologia, una tematica che ho sempre voluto approfondire».
Invece la sua carriera come professore e come Decano della Facoltà valdese?
«Ha lasciato molto in me: l’incontro con gli studenti, la possibilità di approfondire gli studi insieme ad altri docenti; l’attivazione dei corsi a distanza che mi hanno fatto incontrare persone interessanti».
La prossima meta sarà Bologna?
«In realtà non è uno spostamento ma un ritorno a casa. Mia moglie è docente all’Università di Bologna, ho sempre fatto il pendolare».
Che cosa prevede per il suo futuro e quali sono i suoi desideri?
«Certamente il mio desiderio più forte è quello di poter fare il nonno per i miei nipoti, proseguire la collaborare con la mia chiesa, infine, ho a cuore il master di teologia interculturale attivato alla Facoltà valdese di Roma. Poi come dicevo raccogliere i tanti anni di studi, scritti, riflessioni».