Il compleanno amaro del Sud Sudan
Le organizzazioni umanitarie e per lo sviluppo, insieme alle chiese, si impegnano per evitare una nuova guerra civile dopo che la fragile tregua di un anno fa sta vacillando sotto i colpi di nuove violenze
Nella giornata dell’8 luglio, poche ore prima del quinto anniversario della nascita del più giovane Stato del mondo, il Sud Sudan si è ritrovato nel pieno della guerra civile scoppiata alla fine del 2013 e che sembrava essere scesa di intensità in modo considerevole dopo il “cessate il fuoco” dell’agosto dello scorso anno.
Nei primi giorni sono state uccise circa trecento persone, tra cui due “caschi blu” cinesi della missione Unmiss e un dipendente delle Nazioni unite, e la nuova escalation ha colto di sorpresa molti osservatori internazionali e politici sudsudanesi, al punto da spingere il presidente Salva Kiir e il suo vice Riek Machar, oggi ambiguamente alleati ma storicamente a capo delle due fazioni in guerra, a chiedere ai loro soldati di rispettare gli accordi e di interrompere immediatamente i combattimenti, finora senza risultati. Secondo Chiara Scanagatta, responsabile dei progetti in Sud Sudan di Cuamm – Medici con l’Africa, «è la prima violazione così palese del “cessate il fuoco”, anche se in realtà da agosto ad oggi ci sono sempre stati focolai di conflitti legati più o meno a quella che è la linea principale dell'opposizione tra queste due fazioni. Bisogna essere onesti e dire che il Paese non ha mai raggiunto una vera e propria pace e stabilità, anche perché l'enorme disponibilità di armi è tale che anche semplici conflitti tra famiglie, tra clan diversi, possono degenerare rapidamente». Per cercare di fermare il nuovo scoppio della guerra il segretario generale delle Nazioni unite, Ban Ki-moon, ha invocato un embargo immediato sulle armi dirette nel Paese, che ha vissuto più tempo in guerra che in pace nei suoi primi cinque anni di vita.
Anche per le chiese la situazione ormai è insostenibile. Il South Sudan Council of Churches, che fa parte del Wcc, il Consiglio mondiale delle chiese, ha lanciato un nuovo appello affinché si metta fine alla violenza nel Paese. «Sono troppe le sofferenze causate da questo intollerabile conflitto – si legge nel comunicato – e troppe persone innocenti sono state costrette a lasciare le loro case. Come operatori di pace siamo indignati da tutti questi morti e feriti, dalla fame e dalla paura che attanagliano le nostre città».
La costruzione di una pace che rappresenti una normalità e non una parentesi tra un conflitto e l'altro è la grande sfida di fronte a cui la politica internazionale si trova in questo momento, ed è fondamentale la collaborazione con le realtà presenti sul territorio, come ribadito da Chiara Scanagatta.
In un contesto come questo tutto diventa emergenza. Per chi, come Cuamm, lavora per la normalità, come cambia l'impegno tra un paese in pace e uno in guerra?
«La presenza del conflitto è la più grande difficoltà che un'organizzazione votata allo sviluppo come il Cuamm può trovare in un contesto come il Sud Sudan. Va detto, tuttavia, che negli ultimi tempi anche i grandi donatori hanno cominciato a dare un'impostazione un po' diversa al proprio aiuto, cercando di non focalizzarlo esclusivamente sulla dimensione umanitaria, ma anche andando a sostenere progetti di sviluppo, che permettono di lavorare con le autorità all’interno del sistema esistente».
A proposito dell’esistente: Cuamm è presente in questo territorio dal 2006, quando ancora faceva parte del Sudan. In questi dieci anni, e ancor più negli ultimi cinque, che cosa è cambiato?
«Purtroppo c'è stato un netto peggioramento: nei primi anni, quando sono arrivata in Sud Sudan, c'era molto entusiasmo, c'era la sensazione di poter costruire il Paese e di poter passare da un contesto di aiuto umanitario di emergenza a un contesto di vero sviluppo, quindi a una ristrutturazione del sistema, ma la crisi del 2013 ha messo fine a queste speranze, si è tornati sull'umanitario e su interventi di emergenza tralasciando la dimensione dello sviluppo. I sudsudanesi cominciano a essere molto stanchi di questo conflitto permanente, e questo non aiuta il lavoro verso la normalità».
Il cuore del conflitto è nelle città, ma i problemi riguardano anche le zone rurali?
«Sì, infatti è necessario trovare un equilibrio e lavorare a tutti i livelli, da quello nazionale a quello dei singoli Stati, dai distretti ai singoli villaggi. Una presenza capillare è decisiva per le organizzazioni perché permette di fronteggiare situazioni di particolare emergenza, come la grande presenza di sfollati oppure i segni del cambiamento climatico, riuscendo a trovare sponde nelle autorità ai vari livelli.
Nel nostro caso, per esempio, abbiamo un ufficio di coordinamento nella capitale, Juba, e qui ci occupiamo dei contatti con le autorità e dell’acquisto dei beni, ma non abbiamo progetti in questa città, perché abbiamo scelto di agire in due territori, la regione del Laghi e l’Equatoria Occidentale, dove supportiamo 81 strutture sanitarie periferiche, tre ospedali e una scuola di ostetricia. Il supporto è necessariamente onnicomprensivo, nel senso che gestiamo un po' tutti i diversi aspetti, dal pagamento del personale alla formazione dello stesso, fino all'acquisto di equipaggiamenti e farmaci e alla ristrutturazione delle strutture che sono danneggiate o comunque non adeguate ai servizi che dovrebbero fornire».
In un Paese molto giovane come questo e molto frammentato si trovano delle sponde nella società civile, nelle chiese, in questo mondo di organizzazioni che si occupano di garantire una vita alle persone?
«È importante fare rete con queste realtà, perché ognuno può seguire le parti di propria competenza. Tuttavia, la rete è orizzontale, mentre sarebbe più auspicabile un maggior coordinamento, perché altrimenti si rischia di duplicare alcuni sforzi o di fare più fatica di quella che si farebbe se ci fosse un reale e miglior coordinamento tra tutte le realtà che agiscono nell'ambito dello sviluppo e dell'aiuto umanitario».
C'è la speranza che a un certo punto il Sud Sudan possa rimettersi sui binari di una storia normale?
«Non si può mai dire che non ci sia speranza, però ci vuole un forte impegno a tutti i livelli, politico prima di tutto, ma anche nel campo dell’educazione e della cultura per far capire che c'è un'alternativa possibile, cioè che la violenza e la guerra non sono gli unici modi per risolvere i problemi, ma che c'è un modo diverso, che passa anche attraverso lo sviluppo del Paese. Il problema è che per arrivare a tradurre questa presa di coscienza nel concreto è necessario che tutte le forze in campo e tutti i settori del Paese collaborino nella stessa direzione».