Elie Wiesel, premio Nobel e testimone della persecuzione
La scomparsa dello studioso e scrittore ebreo di origine transilvana
Con Elie Wiesel, testimone dello sterminio nazista degli ebrei, scrittore e drammaturgo, nato nel 1928 in Transilvania e morto a New York il 2 luglio, scompare una di quelle figure forti, autorevoli, radicate nella propria composita cultura, ma anche in grado di parlare a chiunque, in ossequio all’imperativo morale di lottare contro l’oblio e il negazionismo – militanza questa che gli valse l’aggressione di un «negazionista» della Shoah. Deportato a Auschwitz e successivamente a Buchenwald, premio Nobel per la Pace nel 1986, Wiesel – che avrebbe meritato anche il Nobel per la Letteratura – è legato all’immagine contenuta nel romanzo La notte (1958 – ed- it. Giuntina, 1980), e poi divenuta emblematica della constatazione amara di un Dio che è stato ucciso, sotto le spoglie di un bambino impiccato ad Auschwitz.
Alla domanda su dove sia il Dio dei profeti e della Bibbia, fra i deportati costretti ad assistere a quella esecuzione, si fa strada questo interrogativo; e uno dei presenti a mezza voce risponde proprio che Dio è su quella forca. Non è una affermazione semplice, a volte viene sbrigativamente interpretata (un Dio inadeguato o, peggio, impassibile di fronte al più orrendo dei crimini, come già ricordava Dostoevskij nei Fratelli Karamazov); si può anche dire che sia l’umanità a uccidere Dio; si può dire con una forzatura da una certa prospettiva cristiana che nelle vittime e negli oppressi di tutto il mondo risieda una figura del Cristo.
La notte è il primo volume di una trilogia che comprende anche L’alba (1960 – ed. it. Guanda 1996) e Il giorno (1961 – Guanda, 1999); altri testi sono invece indagini sul pensiero ebraico e sui giudaismo: Sei riflessioni sul Talmud (Bompiani, 2000); Le storie dei saggi. I maestri della Bibbia, del Talmud e del chassidismo (Garzanti, 2006).
Facciamo qui riferimento, invece, a un testo teatrale, Il processo di Shamgorod così come si svolse il 25 febbraio 1649 (1979 – Giuntina, 1982), per la potenza evocativa, nei dialoghi di un dramma ambientato nel periodo dei grandi pogrom dell’Europa orientale, compiuti da soldataglie ucraine, cosacche, tartare. Fra una carneficina e l’altra, nel giorno di Purim (a cui si può accompagnare una specie di «festa dei folli, dei bambini e del mendicanti», in cui tutto può capitare), tre attori girovaghi giungono in una taverna sperduta e fatiscente; minacciati dall’incombere della violenza distruttrice, decidono di allestire, come spettacolo per l’oste, la sua cameriera e la figlia, una sorta di processo. Processare chi? Un imputato illustre, il più illustre di tutti, che non è presente, a cui bisogna tuttavia concedere un avvocato difensore.
Profonde sono le implicazioni di una tragedia che a tratti prende i contorni della farsa, e l’ambientazione stessa si pone in sintonia con l’elemento «carnevalesco», in cui i valori sono, per un giorno, sovvertiti. A un giullare tocca di difendere Dio! Non procediamo oltre nel narrare l’arrivo di un misterioso forestiero: preme sottolineare, comunque, la capacità di creare tensione emotiva, sviluppo drammatico e narrativo senza rinunciare a porre delle questioni fondamentali sulla giustizia degli uomini e quella di Dio.
Il Novecento sta lì a testimoniare come dai pogrom del XVII secolo il mondo poco abbia imparato; tanto più l’opera di Wiesel, come quella di Primo Levi e di altri testimoni è stata preziosa. Dobbiamo però leggerla, farla studiare e coglierne l’insegnamento.