La Brexit e il fallimento delle chiese
27 giugno 2016
In Gran Bretagna non solo i partiti, ma anche le chiese non sanno più fornire una coscienza collettiva alla popolazione. Che ha sempre meno strumenti di analisi e comprensione
A pochi giorni dai risultati del referendum che porterà il Regno Unito a separarsi dall'Unione Europea, già 3,6 milioni di persone hanno firmato una petizione per avere una seconda votazione. Tra picchi vertiginosi delle borse, dimissioni di politici britannici e la preoccupazione degli stranieri europei che vivono in Regno Unito, le prospettive future sembrano sempre meno chiare. Prima del referendum anche la Conferenza delle Chiese Europee aveva affermato la necessità di una nuova visione per l'unità dell'Europa. Un commento di Simone Maghenzani, ricercatore italiano in Storia Moderna all'università di Cambrige.
Qual è stata la reazione dalle chiese?
«Essendo una chiesa di Stato, la chiesa d'Inghilterra non poteva prendere una posizione ufficiale sul referendum; tuttavia, dall'Arcivescovo di Canterbury ad altre figure rappresentative del mondo religioso britannico, c'era un costante riferimento all'integrazione e all'attenzione per lo straniero: non c'è stato quindi un discorso politico diretto, ma era comunque piuttosto chiaro quale fosse la parte preferita delle chiese. Dobbiamo renderci conto, però, di come le istituzioni religiose abbiano sempre meno presa sul paese: per esempio, le zone del nord, tradizionalmente laburiste, erano aree metodiste, ma questa realtà è venuta meno e si è sgretolata negli ultimi 30 anni. Chiese e partiti non riescono più a fornire una coscienza collettiva alle classi subalterne o al sottoproletariato che non ha altro che i media, i social e se stesso come elemento di analisi e comprensione. Non ci sono più strumenti, istituzioni e agenzie di formazione che aiutino a generare una speranza e una prospettiva diversa e una diversa capacità di analisi della realtà, e su questo terreno anche le chiese hanno fallito. Il dato dei laureati è importante, perché chi ha un'educazione formale arriva a fare un salto di analisi, mentre chi aveva i sindacati, i partiti e le chiese come punti di riferimento, oggi è solo e senza la capacità di vedere oltre il proprio piccolo villaggio. Chi ha avuto la possibilità di viaggiare, ha votato per il Remain. Le chiese oggi sono chiamate a fare un lavoro di ricostruzione e di riunione di una realtà profondamente divisa, e lo faranno se riusciranno ad avere una voce forte. In questo momento sono molto sullo sfondo».
Come ha reagito, invece, il mondo della cultura?
«Il mondo dell'Università era a favore della permanenza nell'Unione europea. Bisogna ricordare che le università nel Regno Unito hanno avuto ottimi successi anche per la capacità di raccogliere finanziamenti europei, che sono fondamentali per l'attività di ricerca. Non sappiamo assolutamente dove e se questi finanziamenti continueranno, perché sicuramente tutto verrà rinegoziato. C'è una grande incertezza negli ambienti universitari e da parte dello stesso ministero dell'Istruzione. Il mondo della cultura, essendo per sua natura un luogo internazionale e con uno sguardo aperto verso altre realtà culturali, era sicuramente favorevole a restare in Europa. Forse anche qui non ci siamo resi conto di quanto profonda fosse la frattura nel paese, quanto profonda fosse la separazione tra ceto medio istruito e classi subalterne, in una società britannica ancora divisa per classi sociali. I media si sono svegliati e hanno dovuto sopportare una campagna elettorale il cui livello del dibattito era misero, tremendamente banale e razzista in alcuni punti. Ci siamo svegliati in un paese in cui dire qualcosa di razzista è un po' più permissibile. Non pensiamo che il 52% del paese sia composto da persone xenofobe, ma viviamo in un paese senza risposta alle loro paure, che sono reali. Anche i vari Farage si sentono più legittimati nelle loro posizioni e questo spinge il Regno Unito indietro di diversi decenni».
In generale come sono stati i giorni intorno al voto per il Regno Unito?
«Sono stati giorni molto intensi e stressanti. Nelle settimane precedenti al voto abbiamo avuto la sensazione che la campagna per l'uscita stesse prendendo piede. Il Governo sosteneva il restare, dunque per le forze di opposizione era molto semplice alzare la voce. Con l'omicidio della laburista Jo Cox si è pensato che le cose potessero cambiare. Durante la notte del referendum, però, i risultati arrivavano lentamente e i Leavers avevano ottimi risultati in zone tradizionalmente progressiste. Si è capito subito che se avesse vinto il Remain sarebbe stato per il rotto della cuffia, ma così non è stato. Nel Regno Unito ci sono tre milioni di persone che provengono da altri paesi dell'Unione Europea e che vivono e lavorano lì, e ancora di più colpisce questo risultato: la Manica è decisamente più grande in questi giorni. Per molti di noi, per cui l'identità europea ne teneva insieme diverse, è una ferita profonda».
Il Regno Unito sembra sorpreso per questo risultato. Anche dall'interno c'è questo senso dell'inaspettato?
«Il referendum ha portato al collasso dei due partiti principali: da un lato il leader del partito conservatore si dimetterà a ottobre e ci si aspetta una durissima lotta interna, e dall’altro un governo ombra laburista che nel weekend si è dimesso a metà. Le classi politiche hanno perso il contatto con la realtà sul terreno di buona parte del paese, per cui il governo non si aspettava un risultato così. Non c'è una linea, non c'è un “piano B”, siamo tutti davanti all'improvvisazione e non sappiamo come stanno andando avanti le cose».
Insomma, la confusione si ritrova su tutti i fronti.
«Il referendum è solo consultivo, non ha nessun vincolo legale, per cui ci deve essere una legge che passi per il Parlamento. Il problemi sono due: a Westminster non c'è una maggioranza di 350 parlamentari per il Brexit. Dall'altra parte c'è il problema della Scozia. Il voto è stato diviso anche dal punto di vista regionale, e sia la Scozia sia l’Irlanda del Nord hanno votato per rimanere. Non è chiaro se la Scozia abbia diritto di voto nel proprio parlamento, perché è un caso che non si è mai presentato prima. Se così fosse, avrebbe una sorta di diritto di veto, quello di cui ha parlato ieri Nicola Sturgeon, la prima ministra scozzese. Bruxelles spinge perché Londra dichiari il processo di uscita dal paese, dall'altra i brexiters stanno rallentando perché ci sono troppe cose non definite. Occorreranno mesi prima di avere chiarezza».
Le chiavi di lettura hanno toccato demografia e geografia: contano così tanto?
«C'è una distinzione evidente tra Londra e il nord del paese, dove trent'anni di depressione hanno portato a una situazione di crisi economica latente. È un paese diviso: non si dice mai, ma in Irlanda del Nord, per esempio, i fondi europei hanno aiutato nel processo di pace. La classe operaia ha visto il referendum come un modo per indicare la porta alle classi dirigenti e al Governo. Il partito laburista non è stato in grado di offrire una narrazione convincente e positiva che guardasse al futuro e che raggiungesse la sua base elettorale tradizionale. Certo, il tema dell'immigrazione è stato centrale per il referendum: le zone a più alta immigrazione hanno votato per rimanere, mentre aree a prevalenza bianca ma in condizioni di sottosviluppo hanno votato per l'uscita con la paura dei migranti, in nome del pregiudizio secondo cui “gli stranieri rubano il lavoro”. La responsabilità è ancora una volta dei partiti che non hanno saputo fare un discorso che guardasse al futuro e che sapesse arrivare a queste persone. Spesso si è pensato di dare la colpa all'Unione europea quando la responsabilità era di scelte politiche inglesi: il servizio sanitario nazionale in profonda crisi, per esempio, non dipende certo da Bruxelles ma dai tagli di Londra».