Sara non è tornata a casa
01 giugno 2016
Dal 2014 ad oggi sono 319 le donne uccise per mano maschile. Abbiamo chiesto una riflessione a Gianna Urizio, giornalista e regista
Questa volta la vita spezzata è quella di Sara Di Pietrantonio, 22 anni, studentessa della Facoltà di economia di Roma Tre, morta per mano del suo ex compagno che l’ha bloccata, in via Della Magliana a Roma, mentre faceva ritorno a casa speronando la sua auto, entrandovi dentro, per poi cospargerla di alcool e dando fuoco; la ragazza, nel frattempo, invano chiedeva aiuto e soccorso alle auto in transito, nessuno si è fermato. Poi, inseguita dal suo ex viene strangolata mentre ancora arde tra le fiamme accese proprio dall’uomo che credeva le avesse dato amore e al quale, sino all’ultimo minuto, aveva riservato attenzioni e rispetto. È solo l’ultima tragedia che priva la vita di una ragazza, un nuovo caso di femminicidio, neologismo che indica i casi di omicidio doloso o preterintenzionale in cui una donna viene uccisa per mano di un uomo. Secondo i dati Istat del 2015, in Italia 6.788.000 donne hanno subito nel corso delle propria vita una violenza fisica o sessuale. Tra i 16 e i 60 anni quasi una su tre, e il 12% di queste non ha avuto la forza di denunciare il fatto. Nel 2014 136 femminicidi, nel 2015 sono stati 128, e nel 2016 siamo per ora a quota 55. In tre anni 319 donne uccise per mano maschile.
La matrice della violenza contro le donne può essere rintracciata ancor oggi nella disuguaglianza dei rapporti tra uomini e donne. La stessa dichiarazione adottata dall’Assemblea Generale dell’Onu che parla di violenza contro le donne come di «uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini». È ancora così?
«Non credo che la definizione dell’Onu sia esaustiva. Nella cultura patriarcale che noi denunciamo c’è ancora una supremazia maschile che però si è trasformata nel tempo, in possesso. La donna è dell’uomo. Nel caso del rifiuto, questo non può essere accettato. Dietro a questa nuova situazione emergono due elementi; da un lato la paura della perdita e dall’altro la rabbia. Dunque, una paura che si trasforma in rabbia. Una rabbia incivile, barbara, inconsulta. Solo pochi giorni fa ho potuto vedere il film La sposa bambina e la prima cosa che viene in mente è che quel film ci parli di un mondo e una cultura lontana dalla nostra. Eppure, non è così, la questione era focalizzata proprio sul possesso, proprio come avviene da noi. La donna considerata oggetto, possesso dell’uomo; non come compagna di dialogo, di incontro, di amore. Il possesso esclusivo dice: o sei mia o non sarai niente e soprattutto non sarai di nessuno».
Questo fatto però non ammette giustificazioni!
«Oggi ho voluto ribadire proprio questo a due classi di un liceo romano nel quale sono andata a parlare di femminicidio. Ho ricordato loro che ognuno di noi è proprietà di se stesso e che il rapporto affettivo non può essere visto come un contratto di proprietà. Solo questo mese ci sono stati tre casi di femminicidio. L’ultimo perpetrato da una guardia giurata, una figura professionale nella quale si ripone fiducia. Dovremmo essere ancora più severi rispetto alla dichiarazione dell’Onu che parla di subalternità femminile e supremazia maschile. Oggi il tema da affrontare è proprio quello del possesso e tutta la rabbia che questo genera. Siamo chiamate e chiamati a ribadire con maggior forza, soprattutto ai giovani, che ogni rapporto si deve basare sul rispetto e la tutela della dignità dell’altro».
Secondo lei è giusto mettere aggravanti penali in caso di femminicidio?
«Credo molto di più nella prevenzione che nella cura. Anche perché fare una buona prevenzione salverebbe la vita di molte donne. Ma certamente i femminicidi, come qualsiasi altro omicidio, non devono avere nessuna attenuante».