Ungheria: uno spiraglio di accoglienza
24 maggio 2016
L’evoluzione del lavoro per l’inserimento dei migranti
È maggio ormai e la mia esperienza di volontariato a Budapest, Church of Scotland, sta varcando le soglie della fase conclusiva. Mancano pochi mesi e poi tutto volgerà al termine. Provo sensazioni controverse al riguardo: l’adattamento è in una continua danza con la nostalgia di casa. Con gennaio, il mio volontariato ha preso una nuova forma, cominciando nuove attività, che mi danno grandi soddisfazioni.
Mi è stato chiesto di tenere ore di conversazione in lingua inglese con un gruppo di donne rifugiate, già alle prese con l’apprendimento della lingua ungherese. Queste ore sembrerebbero non essere solo occasione per lo studio di una nuova lingua, ma anche il modo per incontrarsi tra di loro, chiacchierare, ridere e scherzare insieme. A questi incontri, si aggiungono anche lezioni individuali di inglese con altri rifugiati e, da poco, il supporto all’apprendimento dell’ungherese di un gruppo di ragazzi, tra i quali alcuni non hanno mai frequentato alcuna scuola nella loro vita.
Non essendo io madrelingua inglese, né tantomeno ungherese, e non essendo neanche un’insegnante, temo sempre il rischio di insegnare cose sbagliate. Ma il lavoro dei volontari qui è un importante aiuto e gli studenti si mostrano sempre molto grati di seguire le lezioni. Così, il timore lascia il passo al piacere per questa attività.
Fare volontariato per la Refugee Mission significa anche improvvisarsi baby-sitter per i figli delle persone che si recano nella chiesa, per seguire i corsi di lingua. Significa anche improvvisarsi cuochi, per cucinare anche semplici piatti o dessert all’italiana (facilmente apprezzati!) e pranzare tutti insieme. Significa anche lavorare, in gruppo, per sistemare gli appartamenti che attendono nuove famiglie. E questo è il grande sforzo di integrazione che avviene all’interno della chiesa Saint Columba of Scotland. Purtroppo, si tratta di una situazione unica, in cui, apertamente, una chiesa parte della Chiesa riformata di Ungheria si pronuncia e agisce in supporto a persone rifugiate. Più recentemente, anche la Comunità di Sant’Egidio, i Gesuiti e la Chiesa Luterana hanno cominciato a svolgere attività a sostegno dei rifugiati.
Il giugno scorso, l’associazione «Kalunba» ha visto terminati i finanziamenti provenienti dalla Chiesa Riformata in questione e ne è conseguita la chiusura del centro culturale (community centre), che ha gestito con successo per anni. Questo è quindi un momento di transizione, in cui ogni sforzo è canalizzato, nel tentativo di costruire una realtà simile a quella passata. Le difficoltà incontrate riguardano principalmente i rallentamenti dei finanziamenti da parte dell’Unione Europe e della collaborazione attesa da parte della Chiesa Riformata di Ungheria.
Il lavoro di «Kalunba» è supportato, allo stato attuale, da diverse chiese di altri Stati, da donatori privati e, principalmente, dalla Saint Columba stessa, in cui hanno luogo le lezioni di lingua. Un grande contributo è garantito poi dai fondi dell’8xmille della Chiesa valdese, che ha finanziato il progetto «Diagnosis and therapy of migrant children with learning difficulties». Si tratta del supporto all’insegnamento per bambini con difficoltà di apprendimento, figli di rifugiati, e che si basa sull`uso del movimento.
Confesso poi le mie difficoltà, lungo la mia permanenza qui in Ungheria, nel tentativo di cogliere i pareri delle persone e di comprendere quali sono le scelte della Chiesa Riformata di Ungheria, intorno ai temi legati alle migrazioni attuali e ai rifugiati. In parte, perché il mio livello di conoscenza della lingua ungherese non è sufficiente a comprendere i discorsi sui mezzi pubblici, né i sermoni dei culti a cui ho, talvolta, partecipato. Sono comunque riuscita a raccogliere, lungo i mesi, i pareri di alcune persone e, in particolare, di alcuni pastori.
Mi è stato raccontato, ad esempio, di come numerosi ministri di culto della Chiesa Riformata di Ungheria tengano sermoni apertamente «contro lo straniero», in tutto il Paese, non solo nella capitale, ma soprattutto nelle località di confine con gli altri Stati. Questo, principalmente, per la paura che l’Islam possa cancellare la «cristianità del popolo ungherese». Una parte di quest’ultimo ha atteso secoli, sotto dominazioni varie, per poter costituire un governo che difendesse la sua identità nazionale e anche quella religiosa cristiana.
Questa paura, sembrerebbe seguire la stessa strada della campagna di pressione sui migranti, a cui il governo ha provveduto a partire dal febbraio scorso, con grandi cartelli nelle città, attraverso i quali veniva difeso il nazionalismo ungherese. Un sondaggio è anche stato inviato a tutte le famiglie e poi raccolto per una successiva analisi. Nel sondaggio, costruito su 12 quesiti, la figura dei migrante veniva mescolata in modo strategico a quella del terrorista, e si domandava ai cittadini il grado di accordo con le scelte politiche antimigratorie, facendo leva sulla paura (peraltro prodotta con le stesse domande del sondaggio) e sul senso di protezione delle proprie famiglie.
Nel novembre scorso, il campo profughi di Debrecen – la seconda città ungherese per dimensioni – è stato chiuso. Si tratta del campo meglio attrezzato. È stato chiuso per scelte politiche: uno dei punti cruciali, intorno ai quali i candidati sindaci per la città di Debrecen hanno svolto le loro campagne elettorali, coincideva proprio con la chiusura del campo in questione. Tali scelte sembrerebbero essersi dimostrate però poco strategiche, obbligando alla ridistribuzione della popolazione residente al suo interno negli altri campi (dovrebbero essere cinque in tutta l’Ungheria) e, di conseguenza, il sovraffollamento di questi ultimi. Hanno addirittura parlato di costruirne uno nuovo, nonostante quello già esistente in Debrecen.
Di fronte all’odio predicato e agito in varie forme, alcune più sottili, altre meno, il lavoro dell’associazione Kalunba e della Chiesa di Saint Columba di Scozia rappresenta un modello, perché fa proprio il messaggio dell’aiuto al Prossimo, in questo caso lontano e vicino al tempo stesso. Poter far parte di questa realtà è l’aspetto che dona il maggior senso al mio periodo qui all’estero.