Africa, verità parziali
20 maggio 2016
Sono passati tre anni dall’ultimo colpo di Stato riuscito nel continente africano, un periodo lungo rispetto al normale, ma questo non significa che i problemi politici siano risolti
Durante la conferenza Italia–Africa, che si è tenuta a Roma mercoledì 18 maggio, la presidente della Commissione dell’Unione Africana, Nkosazana Dlamini-Zuma, ha affermato che «i conflitti stanno diminuendo, l’Africa di oggi è meglio governata, abbiamo società più inclusive in grado di garantire pace e sicurezza». A margine di questa dichiarazione, è passato quasi inosservata l’osservazione della stessa presidente a proposito del fatto che quello in corso sia il più lungo periodo senza colpi di Stato riusciti nel continente dagli anni Cinquanta a oggi. Questa affermazione è vera o va considerata un esercizio retorico per sottolineare le possibilità di investimento, economico e culturale, in Africa?
Andando a scorrere elenchi, articoli e cronache, va notato che non si era mai verificato un periodo così lungo senza che le forze armate di un Paese africano rovesciassero un governo prendendo direttamente il potere. Sono infatti passati quasi tre anni dall’ultimo colpo di Stato riuscito, quello egiziano, attraverso il quale il 3 luglio 2013 l'attuale presidente Abd al-Fattah al-Sisi aveva deposto il governo dei Fratelli Musulmani guidato da Mohamed Morsi, di cui era stato ministro della Difesa.
In questi anni, nel “continente degli 87 colpi di Stato” – riusciti – moltissime figure si sono proposte come salvatori dei loro Paesi per via militare, senza però riuscire a imporsi.
Negli anni Ottanta, nell’ultimo periodo della decolonizzazione africana, era quasi impossibile pensare all’Africa senza associarla all'idea dei colpi di Stato. Trent’anni dopo, sono in molti a chiedersi se questo processo vada collocato nel passato, in una fase ormai superata, e se con al-Sisi nel 2013 si sia chiuso un cerchio di 87 colpi di Stato cominciato proprio al Cairo nel 1952 con l’insediamento di Nasser.
Quello egiziano è forse un caso limite, tanto che si usa dire che in Egitto sia l’esercito ad avere il proprio Stato, e non il contrario, ed è difficile pensare a un eventuale rovesciamento di al-Sisi, visto che la sua carriera all’interno dell’esercito gli ha garantito una fedeltà assoluta da parte dei militari.
Spostando l’attenzione fuori da questo Paese, e guardando al quadro generale, tutti i tentativi di prendere il potere con la forza in Africa dal 2013 a oggi sono naufragati, spesso con contorni caricaturali, oltre che drammatici. È quasi esemplare il caso dei due tentativi di colpo di Stato avvenuti in Burkina Faso negli ultimi due anni: il 30 ottobre del 2014, infatti, il capo dell'esercito, Honoré Nabéré Traoré, aveva annunciato la presa del potere per via militare, ma era stato immediatamente bloccato da un gruppo di giovani ufficiali, guidati dal colonnello Isaac Zida, che due settimane dopo aveva ceduto il potere a un governo civile presieduto da Michel Kafando. Poco meno di un anno dopo, era stato il capo della guardia presidenziale, Gilbert Diendéré, a cercare di rovesciare Kafando un mese prima delle elezioni, ma a una settimana dal tentativo aveva abbandonato i propri intenti restituendo la guida del Paese allo stesso Kafando. Quest’ultimo avvenimento, definito spesso “il colpo di Stato più stupido della storia”, è probabilmente un episodio isolato, ma che potrebbe indicare, negli esiti, una tendenza.
Secondo il settimanale francese Jeune Afrique, la prima rivista panafricana per diffusione e numero lettori, «il continente più colpito dalla febbre dei complotti è in fase di guarigione». Nell’ampia riflessione proposta da Jeune Afrique si ricorda che «un militare che, al giorno d'oggi, volesse rivoltare un governo, anche molto impopolari, attraverso l'esercito, sa che sarà immediatamente condannato e perseguito da parte dell’Unione africana, dalle Nazioni Unite e dalla comunità internazionale».
Il problema di questa lettura, esattamente come delle affermazioni di Dlamini-Zuma, è che, pur corrette e tecnicamente vere, non tengono in considerazione l’aspetto più controverso dell’attuale quadro politico africano, quello della natura del potere: non sempre il fallimento di un colpo di Stato è segno di una società plurale e democratica capace di opporsi all’azione militare, e il caso del Burundi è lì a testimoniarlo. Poco più di un anno fa, era il 13 maggio 2015, il generale Godefroid Niyombareh tentò un colpo di Stato per rovesciare il presidente Pierre Nkurunziza approfittando della sua assenza dal Paese, ma dovette rinunciare appena due giorni dopo, quando Nkurunziza, ritornato a Bujumbura, riprese il potere senza particolari problemi nonostante nelle due settimane precedenti la popolazione burundese avesse protestato duramente contro la sua decisione di candidarsi per un terzo mandato, accusandolo di aver messo in crisi lo spirito della Costituzione che aveva messo fine a dieci anni di guerra civile.
Considerare la stabilità politica come un valore in sé può servire per tranquillizzare i potenziali investitori internazionali, ma non risolve alla radice alcuni tra i principali problemi africani: la concentrazione del potere in poche mani, la natura dispotica o addirittura totalitaria dei governi, come nei casi limite di Eritrea e Gambia, così come il ruolo dell’esercito, passato in molti casi da un ruolo destabilizzante a uno di difesa di interessi garantiti dai leader messi alla guida dei vari Paesi, provenienti in molti casi dall’esercito e poi spesso convertiti a un ruolo civile.
Un racconto come quello proposto da Dlamini-Zuma è rassicurante, e il continente africano ha sicuramente bisogno anche di questo, ma rischia di distogliere l’attenzione da un quadro che non può fondarsi soltanto su una stabilità calata dall’alto.