«Il Mediterraneo deve tornare a essere un’ecumene»
18 maggio 2016
Secondo Tiberio Graziani, presidente dell’Isag, la decisione di ridurre l'embargo sulle armi in Libia non affronta i nodi culturali dei conflitti nel Mediterraneo
Lunedì 16 maggio a Vienna, durante un vertice sulla crisi protratta in Libia, 20 Paesi, tra cui i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e l’Italia, hanno annunciato un accordo per fornire armi e addestramento al governo di unità nazionale libico, nominato a dicembre e recentemente insediato a Tripoli dopo numerose difficoltà. La riduzione dell’embargo internazionale, limitata ad alcuni aspetti specifici e ad alcune eccezioni, ha lo scopo di favorire la lotta contro il gruppo Stato islamico, che controlla alcune città costiere, il contrasto al traffico di esseri umani tra le sponde del Mediterraneo.
Tuttavia, i due governi che si sono spartiti la Libia negli ultimi anni, favorendo l’ascesa di un gran numero di milizie, formalmente esistono ancora, e se quello di Tripoli, che controllava la Libia occidentale e che era formato da una coalizione di milizie islamiste, si è indebolito al punto da confluire in gran parte nel governo di Serraj, quello di Tobruk, ancora esistente in Cirenaica, continua a essere controllato nei fatti da Khalifa Haftar, ex generale di Gheddafi e sostenuto da Egitto ed Emirati Arabi Uniti. «Dal punto di vista formale – spiega Tiberio Graziani, presidente dell’Isag, l’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie – è cambiato molto, perché Sarraj è un interlocutore sostenuto dalla comunità internazionale, dalle Nazioni Unite, dagli Stati Uniti e anche dall’Italia, che l’ha fortemente voluto. Il governo ha già presentato delle richieste alla comunità internazionale e lo ha fatto nella giusta sede, la conferenza di Vienna, per cui la situazione è nuova e sembra andare nella direzione di un miglioramento».
Quali sono queste richieste?
«Sarraj ha chiesto aiuti di notevole portata non soltanto sul piano economico, ma anche su quello militare, escludendo però la presenza di eserciti stranieri sul proprio territorio. Si apre un fronte nuovo, anche se si poteva prevedere e ci si poteva arrivare. Va detto che l’azione diplomatica svolta dall’Italia ha avuto un certo successo, perché il nostro Paese, nonostante alcuni tentennamenti, si è sempre opposto a un intervento militare, che ora è stato chiaramente escluso. Tutta la comunità internazionale, vale a dire i 20 paesi presenti a Vienna, hanno risposto in maniera unanime a questo appello».
Rimane però da capire come gestire il ruolo del generale Haftar, “uomo forte” di Tobruk.
«Esatto, i i rapporti interni alle varie fazioni in Libia sono complessi. Haftar, che come sappiamo è un generale che tenta di estendere il proprio controllo militare su tutta la Cirenaica, quindi su tutta l’area di Tobruk, porta avanti interessi che sono in parte i suoi, perché intende assumere un ruolo importante dal punto di vista della sicurezza, ma porta avanti anche le posizioni di chi lo sostiene a livello internazionale, cioè gli Emirati Arabi Uniti e l’Egitto. Qui si apre una seconda fase, nella quale sarà decisivo stabilire il rapporto tra il generale Haftar e il comando unificato che vuole il governo Sarraj».
Qui la storia recente è complessa, e parte da quello che forse è un errore di valutazione: prima della formazione del governo Sarraj si era deciso di appoggiare completamente il governo di Tobruk, e quindi di conseguenza il generale Haftar, sperando che poi non si opponesse alla creazione di un governo unitario.
«Esatto. C’è da dire, riguardo al generale Haftar, che si è puntato probabilmente sul “cavallo sbagliato”, però c’è da dire che Haftar era ben conosciuto dagli Stati Uniti, tant’è vero che in passato si è parlato anche di una sua vicinanza alla Cia. Non dimentichiamo che Haftar è stato quello che su indicazione degli Stati Uniti in passato tentò una sorta di colpo di stato contro Gheddafi».
La Francia ha un atteggiamento ambiguo, sospesa tra le decisioni delle Nazioni Unite e il proprio sostegno alle politiche egiziane e di Haftar. Come si può spiegare?
«Ricordiamo che sono state Francia e Inghilterra a scoperchiare il vaso di Pandora in Libia, non dicendo quello che stavano facendo neanche ai propri alleati. Pensate che l’Italia è alleato della Francia e della Gran Bretagna, appartiene anche alla stessa organizzazione atlantica e alla stessa Unione europea, eppure nessuno dei due Paesi ha detto nulla a Roma quando si è deciso nel 2011 di attaccare Gheddafi. Questo getta una luce molto particolare e ambigua sui rapporti esistenti e reali tra i membri della Nato. La Gran Bretagna e la Francia sono ancora presenti militarmente sul territorio. Dato che la situazione non è chiara nel rapporto tra l’esercito “privato” di Haftar e il nuovo comando unificato del governo di Sarraj, ormai legittimo, i francesi e i britannici molto probabilmente pensano di rimanere sul terreno perché prevedono magari un’escalation, una situazione per cui la comunità internazionale sarà chiamata dal governo Sarraj, e quindi in questo caso si troverebbero avvantaggiati perché già presenti sul territorio».
Il nemico comune viene individuato nel gruppo Stato islamico, ma dove si collocheranno invece le moltissime milizie sparse sul territorio libico?
«Il tentativo del comando unificato è assorbirle nel governo unitario, però è anche vero che c’è una strategia di Daesh per ostacolare questa intenzione, e che fa leva sulla presunzione dei vari capi di queste milizie di essere dei veri leader militari. Il nodo è quindi quello della sicurezza interna, e su questo bisognerà ovviamente lavorare».
Lunedì ricorrevano anche i 100 anni dagli accordi di Sykes–Picot, che definirono i confini dei Paesi mediorientali così come, in parte, li conosciamo ancora oggi. In questi cent’anni i Paesi occidentali hanno armato di volta in volta diverse fazioni, riempiendo di armi le sponde est e sud del Mediterraneo. Va bene essere pragmatici e realisti, ma siamo sicuri che la rimozione dell’embargo sugli armamenti sia una scelta vincente?
«Magari potrebbe funzionare a breve termine, ma non credo che sia una strategia vincente né nel medio né nel lungo periodo. Credo che il Mediterraneo debba tornare ad essere quello che storicamente è sempre stato, e cioè un’ecumene, un luogo in cui c’è stato traffico, dialogo, culturale, e a questo bisogna riportarlo. Non possiamo avere sempre alle porte di casa una tensione così elevata, ne va a detrimento non soltanto la nostra sicurezza e tranquillità, ma soprattutto il nostro futuro e quello dei nostri figli, e su questo dobbiamo fare una grande riflessione, una riflessione sia a livello politico, sia a livello economico, ma soprattutto a mio avviso nel lungo periodo a livello culturale».
Cosa intende quando parla di un “livello culturale”?
«L’ospite nella cultura mediterranea, così come nella cultura classica, è sacro, anche se è un nemico. Pensiamo alla narrazione della guerra di Troia, a quando Menelao va da Priamo a chiedere la restituzione di Elena. Come viene accolto? Viene accolto con tutti gli onori: prima mangia e poi soltanto dopo si discute delle ipotesi di guerra. Questa maniera di fare è prettamente mediterranea, ma per noi adesso l’ospite non è più sacro, e questo significa che anche la dignità umana ormai non c’è più. Inoltre, quando si parla di dignità umana trovo che ci sia molta ipocrisia, perché non si va ancora più a fondo in quello che dovrebbe essere l’essere umano: non è soltanto un fatto di essere degno rispetto ad altri, c’è una componente che è molto più ampia, che è la storia dell’umanità a imporci di mettere al centro».
Anche perché nel frattempo la Libia è diventata non soltanto il punto di imbarco di moltissimi disperati che cercano di raggiungere l’Europa, ma anche un luogo di privazione di ogni diritto per queste persone e per gli stessi libici. La normalizzazione politica della Libia avrebbe ricadute dirette su questo piano?
«Credo di sì, ma bisogna essere molto realisti. Come abbiamo visto, nella conferenza di Vienna i padroni di casa erano gli Stati Uniti. In una situazione come quella del Mediterraneo, gli Stati Uniti non dovrebbero nemmeno esserci, perché è una questione prettamente mediterranea, che va risolta dagli europei insieme ai nordafricani. Non può essere demandata, com’è stata per lungo tempo, a qualcuno che si trova oltreoceano, e che quindi ha strategie e interessi completamente diversi da quelli che invece sono quelli quotidiani dei popoli mediterranei. È una riflessione che va oltre la politica, è di tipo culturale, e va approfondita nella prospettiva di dare un futuro ai nostri figli, che non sono ovviamente soltanto gli italiani, ma anche i nordafricani, i figli di tutte le popolazioni mediterranee».
I prossimi passi sono già stati definiti?
«No, temo si andrà all’avventura, questo al di là delle dichiarazioni che verranno fatte nel corso di questi giorni e nel corso delle prossime settimane. C’è una presa di posizione che è quella di limitare l’embargo delle armi. Ecco, adesso vediamo nei prossimi giorni se le persone che hanno deciso questo a Vienna poi manterranno la parola data o se si dovrà ricominciare da capo ancora una volta».