In che ambiente crescono le nuove generazioni?
02 maggio 2016
Allarme per i rischi di inquinamento chimico in Veneto
«L’Istituto Superiore di Sanità ha rassicurato sulla mancanza di un rischio immediato per la popolazione esposta, ma a scopo cautelativo ha consigliato l’adozione di misure di trattamento delle acque potabili per l’abbattimento delle sostanze in questione e di prevenzione e controllo delle filiera idrica delle acque destinate al consumo umano nei territori interessati».
Nodo difficile da sciogliere, quello degli «pfas», le sostanze perfluoro-alchiliche che contaminano un’area piuttosto vasta nel Veneto. Le parole, solo in apparenza neutre del sito del Dipartimento di prevenzione del Ulss 20 del Veronese, testimoniano una situazione complessa, ma anche imbarazzante per chi deve vigilare e controllare la salute dell’ambiente. Le province coinvolte da questo inquinamento sono almeno quattro, Verona, Vicenza, Padova e Rovigo. Sostanze soprattutto usate nella impermeabilizzazione dei tessuti e rivestimenti, questi pfas sono solo uno dei problemi ambientali di una regione che nel corso dei decenni non ha protetto in modo esemplare il proprio territorio da inquinamenti e contaminazioni nocive. E l’ulteriore prova è l’allarme mercurio, lanciato cinque anni fa in una parte della provincia di Treviso e ancora attuale: a oggi restano pozzi con valori sopra i limiti. Un inquinamento della falda che al momento non ha responsabili, visto che resta misteriosa l’origine.
Nella vicenda «pfas», invece, unica colpevole sarebbe una ditta della provincia di Vicenza, la Miteni, specializzata nella ricerca e nella produzione di composti fluorurati per l’industria. Ma i dubbi sull’unicità del responsabile restano: più che probabile che questa azienda all’inizio della sua storia, oltre cinquant’anni fa a Trissino, abbia sversato residui di lavorazione senza troppe precauzioni. Ma è anche vero che leggi e controlli si sono fatti attendere, che per diversi scarichi industriali sono state rese obbligatorie rigide prescrizioni quando i danni erano ormai fatti. E soprattutto che nella provincia di Vicenza è particolarmente attivo il settore tessile e quello conciario, forti utilizzatori di «pfas».
Ma c’è un altro motivo per ipotizzare diversi responsabili, oltre all’azienda vicentina già citata: l’area di contaminazione è troppo vasta, pur considerando la ramificazione sotterranea delle falde.
A parte quelle fallite, sia la Miteni sia altre aziende della zona da tempo si sono messe in regola: i loro residui sono trattati secondo le normative, i loro scarichi sono tenuti sotto controllo. Ma gli effetti di un inquinamento continuato nel tempo restano presenti e inquietanti: la Regione ha cominciato una serie di controlli sulla popolazione, scoprendo percentuali superiori ai limiti di contaminazione da «pfas» nel sangue di alcuni residenti nel vicentino e nel veronese. Pozzi d’acqua chiusi, popolazione sotto controllo: gli studi sugli effetti di queste sostanze non sono molti, si ritiene siano cancerogene e abbiano effetti negativi in particolare sulle donne in gravidanza e sui nascituri. Ma norme, limiti e precauzioni sono ancora generici: il Movimento 5 stelle ha chiesto di adeguare almeno la legge regionale, sottolineando in modo chiaro anche un aspetto fondamentale, spesso tenuto in secondo piano, trascurato e dimenticato in questi casi: l’obbligo di risarcimento, bonifica e ripristino nelle zone contaminate per i colpevoli dell’inquinamento (sperando di trovarli e di poterli inchiodare alle loro responsabilità, senza che scatti ad esempio la prescrizione, com’è successo in molti casi).
Proprio questa richiesta riporta alla mente almeno un altro caso drammatico e tutt’altro che chiuso, in Veneto. Quello della Tricom-Galvanica, un’altra azienda del Vicentino, che nel tumultuoso sviluppo tra il 1970 e il 2003 (anno in cui fallì), fece fortuna con i processi di cromatura industriale. Rilasciando senza troppi problemi nell’ambiente pericolosissime scorie di lavorazione e risparmiando sulle protezioni per i lavoratori. Il risultato fu pesantissimo per i lavoratori: molti si ammalarono e morirono dopo che per anni erano stati a contatto con diversi composti del cromo senza adeguate precauzioni. E pesantissimo anche per l’ambiente: l’area contaminata tra le province di Vicenza e Padova è molto vasta (tracce di cromo esavalente attribuibili agli scarichi dell’azienda sono stati rilevati a decine di chilometri di distanza, portate dalla falda sotterranea). Nei tribunali sono state evidenziate e a volte condannate, in modo quasi sempre inadeguato, le responsabilità individuali. Ma i risarcimenti non si sono praticamente visti. Gli eredi dei lavoratori scomparsi aspettano ancora giustizia piena. Anche per la bonifica bisognerà aspettare e intanto ringraziare l’Europa che, considerando la vastità della contaminazione (forse la più estesa, almeno nell’UE) ha stanziato alcuni milioni di euro, per poter almeno cominciare il lavoro.
Una storia poco nota, in questo Nord Est che vuole essere esempio di progresso e sviluppo, ma troppo spesso ha nascosto le magagne sotto il tappeto del benessere a ogni costo e di una presunta superiorità morale e civile rispetto ad altre aree d’Italia. Pfas e prima ancora amianto, cromo esavalente, fanghi tossici: eredità pesanti di un passato controverso e vissuto pericolosamente. Resta ancora una sfida da accettare completamente la volontà di invertire la tendenza e diventare fino in fondo «i custodi della Creazione», consapevoli che dobbiamo scegliere «la vita» per noi, ma soprattutto «per i nostri figli» (Deut. 30, 19).