Bruxelles raccontata da chi ci abita
24 marzo 2016
Un’intervista a uno dei tanti giovani italiani immigrati nella capitale d’Europa
Andrea Carini ha 27 anni, è un medico e da due anni vive in Belgio, dove si è trasferito per portare a termine la specialistica in anestesia. Andrea è solamente uno delle migliaia di giovani italiani che vivono, lavorano e crescono a Bruxelles: la capitale burocratica delle vilipese istituzioni europee, una città polifonica e multietnica, che ha saputo costruire la propria identità con i frammenti di chi, anche solo temporaneamente, l’ha abitata e le ha dato vita. È questo agglomerato umano, altamente simbolico e, forse, come tutti gli oggetti complessi, al contempo fragile, che i terroristi hanno voluto colpire. Al cuore dell’integrazione politica europea, al cuore dell’integrazione culturale belga.
Come ha saputo che la bomba che tutti paventavano era esplosa per davvero?
«La mattina dell’attentato io dovevo montare in ospedale a mezzogiorno, mi ha svegliato una chiamata dei miei famigliari, alle nove non avevo ancora saputo nulla. Ricordandomi cosa era successo a novembre dopo gli attentati di Parigi sono subito uscito di casa per raggiungere l’ospedale a piedi. Sapevo che metro, tram e autobus non sarebbero passati. Sono uscito verso le dieci e ho fatto a piedi nove chilometri, attraversando tutta la città da nord a sud. Sono passato davanti al Palazzo Reale, ho attraversato la Grande Place, ho percorso il famigerato quartiere di Molenbeek. Posso dirvi che verso le undici la situazione era relativamente tranquilla, non immaginatevi una città nel panico perché non è vero. Semplicemente non c’erano mezzi: né pubblici né taxi».
Davvero non c’era nulla di diverso nell’aria? Nella faccia delle persone?
«In effetti appena uscito di casa la scena non era abituale. Da mesi sono abituato ad avere alcuni soldati nelle immediate vicinanze del mio portone. Non c’erano, erano stati ridirezionati. Ecco, diciamo che paradossalmente la cosa che mi ha messo in allarme è stato non vedere quei soldati che erano là da sei mesi, dagli attentati di novembre».
Dove abita e dove lavora? Il suo ospedale è stato coinvolto nell’emergenza?
«Io abito all’Ixelles, un quartiere tendenzialmente borghese e benestante, al confine tra il centro storico e le istituzioni europee, dove infatti vivono molti stranieri che lavorano per la Commissione; l’ospedale dove lavoro si chiama Brugmann, è un ospedale universitario francofono che fa parte della rete dell’Université Libre de Bruxelles. Il nostro ospedale è stato toccato in maniera molto marginale dall’emergenza, perché l’aeroporto internazionale dove è avvenuto il primo attentato si trova nella provincia del Brabante fiammingo, per cui le ambulanze che sono giunte sul posto per prime hanno portato i feriti a Lovanio e ad Anversa, nella regione delle Fiandre. Solo in un secondo momento, quando questi ospedali hanno cominciato a saturarsi, i feriti sono stati portati verso Bruxelles, all’ospedale Saint-Luc. Dopo il secondo attentato alla metro è poi scattato il piano d’urgenza della capitale, una rete che coinvolge l’ospedale Saint-Pierre – in centro – e l’Erasme, il polo ospedaliero universitario di Bruxelles. Noi come Brugmann abbiamo un reparto pediatrico d’eccellenza, per cui ci hanno inviato i bambini e alcuni feriti minori, per liberare gli altri pronto soccorso. Per il resto la giornata lavorativa è trascorsa regolare. Il mio turno è finito alle 9, dopodiché non sapevo come rincasare. Verso le 11 sono riuscito a prendere un tram e sono tornato a casa».
Come descriverebbe l’atmosfera del giorno dopo?
«Il giorno dopo gli attentati ero di riposo e sono uscito per vedere con i miei occhi la situazione. Che dirvi, una città normale, molte persone per strada, mezzi che girano regolarmente. Sono andato a mangiare fuori con delle amiche; nessuno era allegro ma da nessuna parte ho avvertito quell’atmosfera di panico o di guerra di cui ho letto su siti italiani e internazionali. Giusto qualche minuto fa sono passato da Place de la Bourse e ho sentito con le mie orecchie un inviato di Fox News che davanti a un centinaio di persone che rendevano omaggio alle vittime continuava a ripetere di trovarsi in una città in guerra, con soldati ad ogni angolo. Diciamolo chiaro: non è così. C’è una grande presenza di polizia nei luoghi strategici, ma nulla di diverso dagli ultimi sei mesi».
Le sue parole sono molto utili. Ci fanno capire quanto i terroristi giochino con i riflessi mediatici nello stesso momento in cui ci invitano a riflettere su quanto sia graduale e tutto sommato «accettabile» il processo di adattamento allo stato di guerra. Nelle sue parole leggo una certa assuefazione alla militarizzazione della città. Come si vive, oggi, a Bruxelles?
«Esclusa quell’orribile settimana di Novembre, dopo Parigi, con tutti i negozi chiusi e la città ferma, da allora devo dire che sì, è subentrata l’abitudine. La vita sociale delle persone che frequento non è cambiata in alcun modo. È vero quello che dice, se un anno fa ci avessero detto che avremmo avuto i militari per strada è probabile che avremmo storto il naso. Adesso è parte del quotidiano. Dopotutto quando i nonni ci raccontavano dei bombardamenti, di come erano sfollati in campagna, non è che lo facessero con particolare angoscia. È evidente che la mente umana ha una grande capacità di adattamento. Bisogna stare attenti, perché le situazioni cambiano poco alla volta. Dopo sei mesi i militari in strada non li vedi nemmeno più, danno parte del paesaggio come la pioggia e il cielo grigio. Credo che i parigini possano confermare questo fenomeno, che è sia rassicurante che pericoloso. Vivere a Bruxelles per me, per gran parte di noi, è bello, questo dato non cambia. Il problema vero è che questi attentati dimostrano che di fronte a questo tipo di violenza la militarizzazione può non servire».
Com’è possibile che siano riusciti a colpire l’aeroporto nonostante lo stato d’allerta?
«Negli ultimi mesi ci sono atterrato almeno cinque volte, e posso confermarvi che c’erano soldati ovunque, a decine. Non è vero che non erano state perse delle misure adeguate. La lezione che ne traiamo è forse meno confortante ma dobbiamo farci i conti: la militarizzazione non garantisce la sicurezza».
Si è parlato in questi giorni del Belgio come «stato fallito».
«In realtà in Belgio la presenza della pubblica autorità si sente eccome, ogni volta che c’è da fare un documento amministrativo, perché la burocrazia è asfissiante. La divisione tra entità federali, regionali e comunali crea senza dubbio diversi problemi, probabilmente dà luogo a zone grigie che possono essere sfruttate da criminali o terroristi; senza contare il faticoso pluralismo linguistico… Ciò detto, parlare del Belgio come fosse la Libia o la Siria mi sembra francamente eccessivo e fuorviante».
Da immigrato a Bruxelles, le chiedo un commento sul «brodo culturale» della capitale belga, anch’esso sotto la tempesta mediatica.
«Quello che io ho vissuto, ho visto e penso è che Bruxelles sia una città profondamente divisa: dai suoi quartieri e nei suoi quartieri. Le faccio un esempio. Se io volessi potrei frequentare solamente italiani. Non intendo la comunità storica, di seconda generazione, mi riferisco alle migliaia di coetanei che arrivano, stanno il tempo di uno stage alla Commissione europea e ripartono. Allo stesso tempo, lavorando in ospedale, potrei limitare i miei contatti a quell’ambiente, alla borghesia belga, che a sua volta ignora la vita dei suoi concittadini stranieri. È una città che ha un grande ménage culturale ma che fatica a mescolarsi, ad amalgamarsi. Vale per gli ambienti diciamo così istruiti, per le persone che godono di un buon reddito, e vale anche per i quartieri come Molenbeek dove cambiano i tratti somatici, le insegne sono in arabo e camminando puoi illuderti di essere in un paese del nord Africa. È possibile che in quel tipo di quartieri le zone grigie dell’amministrazione belga unite ai finanziamenti dell’Arabia Saudita, che da anni incentivano infiltrazioni salafite, abbiano prodotto un «brodo di cultura» potenzialmente pericoloso. Ma è un fenomeno di lungo periodo, di cui in Belgio si conoscono cause e conseguenze, su cui si sono prese anche delle contromisure. Purtroppo con i mezzi informatici di oggi l’ideologia terrorista arriva nelle nostre periferie e s’impossessa di individui che non hanno i mezzi economici e culturali per rimanerne immuni, per immaginarsi un futuro migliore. Purtroppo un gesto di follia si consuma in un secondo, l’integrazione sociale invece richiede anni, e si calcola sulle società intere. Chi parla del fallimento del Belgio e di Bruxelles dovrebbe farlo con il dovuto senso delle proporzioni».
Da quel che vedi in Belgio esiste una reazione xenofoba, razzista, a questa mancata integrazione?
«Nelle Fiandre c’è un partito di destra xenofoba e nazionalista che sta creando dei problemi anche all’unità federale del regno. A sud, in Vallonia, dove si parla francese, la maggioranza politica e i media hanno invece orientamenti che definirei tra il socialista e il libertario. Al centro del dibattito c’è la politica sociale belga, in particolar modo i sussidi di disoccupazione: una politica di welfare tipica dei paesi nordici che purtroppo qui è stata usata in maniera indiscriminata, senza troppi controlli, anche da immigrati che hanno cominciato a lavorare in nero per mantenere il sussidio. Tensioni politiche che di questi tempi non facilitano certamente l’integrazione delle comunità straniere. Pur in uno stato che ha fatto delle politiche sociali il suo principale fattore d’attrazione».