La bomba e l’ospedale
06 ottobre 2015
Medici senza frontiere, sull’attacco al centro di Kunduz: «Se fosse un attacco deliberato si tratterebbe di un crimine di guerra»
Nella notte del 3 ottobre alcuni aerei statunitensi hanno colpito un’ospedale di Medici senza frontiere (Msf) a Kunduz, nel nord est dell’Afghanistan. La settimana scorsa le forze di Kabul avevano lanciato un’offensiva per riprendere il controllo della città dopo l'invasione dei talebani. Durante le operazioni sono stati effettuati anche diversi raid aerei nella zona. Il personale dell'ospedale, la cui struttura è stata gravemente danneggiata tanto che è stato necessario evacuare tutti i pazienti, ha ripetuto più volte di aver comunicato espressamente le proprie coordinate alle forze di sicurezza, così come la prassi prevede. Il ministro della difesa afghano ha detto che l’ospedale è stato colpito perché all'interno ci sarebbero stati talebani che lo usavano come postazione militare, mentre il portavoce della Nato a Kabul ha parlato di “effetto collaterale” dei bombardamenti. Trentasette persone sono rimaste gravemente ferite, decine di dispersi, 22 morti di cui 12 operatori sanitari e alcuni bambini. Stefano Zannini, direttore del supporto alle operazioni di Msf, ci ha raccontato cosa è successo.
Che struttura era, il vostro ospedale di Kunduz?
«L’ospedale è strato aperto nel 2011 in questa città, che è una delle principali dell’Afghanistan e il centro principale nel nord del paese. Puntava a offrire l’accesso alle cure mediche di secondo livello, quindi servizi chirurgici e ortopedici. Questo perché la zona è teatro di conflitti ricorrenti e non vi era nessun’altra struttura di questo tipo. Nell'ospedale erano ricoverati più di cento pazienti e ottanta operatori: un edificio importante con diversi reparti e un grande magazzino, oltre alla parte degli uffici e dei bunker dove dorme il personale».
Quello del 3 ottobre è stato definito come “uno dei peggiori attacchi”, quindi non è il primo?
«Questa è una realtà con la quale ci confrontiamo diverse volte. Per esempio gli attacchi dello scorso anno nella Striscia di Gaza in alcuni ospedali in cui lavoravamo o quelli di qualche mese fa nello Yemen. Ma questo evento è sicuramente senza precedenti, per come si è svolto, per la durata e per le sue conseguenze tragiche. Gli ultimi dati aggiornati parlano di ventidue morti durante gli attacchi: 12 operatori e gli altri pazienti. Di questi ultimi sei erano ricoverati nel reparto di terapia intensiva e sono morti carbonizzati perché durante gli attacchi non erano fisicamente in grado di abbandonare i loro letti».
Dalle prime ricostruzioni dei quotidiani sembra che non sia stato un incidente, cosa può dirci?
«Se fosse stato un attacco deliberato si tratterebbe di un crimine di guerra, questo è un dato di fatto non discutibile. Nei nostri ospedali, ma in generale nelle nostre strutture, l’accesso non è consentito con le armi. Durante la notte i cancelli sono chiusi e non è possibile accedere né alla struttura ospedaliera né ai cortili interni. Tutte le persone che abbiamo interrogato fino ad oggi sia personale internazionale che nazionale, presenti quella notte, hanno confermato che non era in corso nessun combattimento, che non è stato sparato nessun colpo di arma da fuoco dall’ospedale e verso l’ospedale, e che non vi era la presenza di uomini armati. Questi sono gli unici elementi fattuali che ci sono in questo momento sul tavolo».
Una delle ipotesi è che le bombe abbiano colpito perché vi erano dei talebani all'interno. Le vostre strutture curano tutti però...
«Questo è uno dei pilastri dell’azione umanitaria: le persone che hanno bisogno di cure mediche le ricevono, indipendentemente dalla loro affiliazione politica, tribale, credo religioso o nazionalità. Nel diritto internazionale c’è una distinzione molto netta tra combattente e non combattente. Non è dunque la presenza di un talebano ferito all’interno di un ospedale che trasforma la struttura in un obiettivo militare. Ma anche se ci fossero degli uomini armati all’interno della struttura ospedaliera, le norme del diritto internazionale prevedono che le forze armate prendano contatto con il direttore e gli intimino di allontanare queste persone. Invece l’attacco deliberato, improvviso e senza nessun tipo di informazione preventiva è un atto criminale, dal punto di vista morale sicuramente. Dal punto di vista legale, lo accerteremo».
Ma allora la possibilità dell’errore c’è?
«Prima di tutto mi auguro che le autorità afghane e statunitensi si chiariscano un po’ le idee, perché il discorso che è stato tenuto in queste 48 ore è abbastanza confuso. Gli Usa hanno ammesso la responsabilità e hanno parlato di danni collaterali. Gli afghani invece hanno detto che non ci sono stati errori, che sapevano della presenza di talebani e hanno deciso di bombardare. Non si è trattato di un attacco, ma di una serie di attacchi ad un intervallo di 10 minuti che sono durati poco più di un’ora. Inoltre non è stata danneggiata nessuna zona perimetrale dell’ospedale, ma soltanto il corpo centrale e principale della struttura, il luogo dove si trova la sala operatoria e la terapia intensiva, ovvero quello con la maggior parte dei pazienti e del personale medico che stava lavorando».
Cosa è stato dei sopravvissuti?
«Una preoccupazione è stata quella di evacuare i feriti e i pazienti che avevamo in cura verso altre strutture ospedaliere, nel resto del paese. Dopo si è proceduto a evacuare il personale internazionale verso Kabul e riassegnare il personale medico locale che si sentiva in condizioni di continuare a lavorare in altre strutture».
Avete chiesto un’inchiesta indipendente: avete già vissuto situazioni simili per le quali siate in attesa di risposte ufficiali?
«No, di fatto stiamo scrivendo la storia, perché ci troviamo di fronte a un atto di una gravità senza precedenti che richiede un posizionamento molto attento e delle indagini particolarmente accurate alle quali noi ci confrontiamo per la prima volta».
Quali scenari prevedete, una volta stabilite le responsabilità?
«Ci sono diverse discussioni in corso, ma da un punto di vista pratico stiamo cercando di capire se ci sono le condizioni per tornare a lavorare a Kunduz. La seconda questione da capire e se continuare a lavorare in Afghanistan: se è successo qui può succedere altrove se questa è la logica. L’inchiesta dovrà coinvolgere un organismo esterno, ma vogliamo che il contenuto sia pubblico nella sua interezza, in modo che diventi un momento di riflessione importante e cruciale su qual è il ruolo dell’azione umanitaria oggi in contesti di guerra e sulle responsabilità degli attori armati in questi contesti».