I “no” continuano a bloccare la Libia, ma il tempo sta finendo
17 settembre 2015
L’accordo annunciato all’inizio della settimana per la costituzione di un governo di unità nazionale si è già arenato sul rifiuto da parte del governo di Tobruk di cambiare i vertici militari. È l’ennesimo freno a una trattativa che lascia poche speranze, anche spostando la scadenza oltre quella prevista per il 20 settembre
La guerra civile libica, che per convenzione si fa cominciare con l’avvio della cosiddetta “Operazione Dignità” da parte del generale libico Khalifa Haftar nel maggio del 2014, e che vede opposti due governi paralleli con sede a Tripoli e a Tobruk, rappresenta per diversi motivi uno dei nodi chiave per il bacino del Mediterraneo e per tutti i paesi che vi si affacciano. Per storia e geografia, in particolare, è l’Italia a risentire maggiormente del caos politico e militare nel paese: in chiave umanitaria, innanzitutto, perché è dalla Libia che partono ogni giorno centinaia di persone che, quando riescono a superare il pericolo della traversata nel Mediterraneo, sbarcano sulle nostre coste, e da un punto di vista economico per quanto riguarda gli interessi energetici di aziende come Eni, i cui lavoratori sono costretti a una condizione di incertezza e a vivere secondo prassi e regole dettate dalla minaccia militare.
Lunedì 14 settembre si pensava che questo conflitto potesse essere arrivato al capolinea: per la prima volta, infatti, il governo di Tobruk e quello di Tripoli avevano trovato un accordo quadro per la costituzione di un esecutivo di unità nazionale fondato sulla condivisione del potere tra le fazioni. Bernardino Leon, l’inviato delle Nazioni Unite al quale è affidata la trattativa diplomatica, aveva annunciato che il Nuovo Congresso Nazionale Generale, con sede a Tripoli e non riconosciuto dalla comunità internazionale, aveva accettato alcune condizioni che finora aveva sempre rifiutato. Eppure, nel pomeriggio di martedì tutto è tornato in discussione, questa volta per via del “no” pronunciato da Tobruk. «Questa reazione potrebbe stupire», racconta Giuliano Luongo, direttore del Programma Africa dell'IsAG, l’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie. «Il problema è che da Tobruk si puntava a unire il paese sotto Tobruk, e questo significava mantenere la propria linea di comando istituzionale e militare».
In realtà i passi avanti compiuti nelle ultime settimane sono molti. «Probabilmente – continua Luongo – le spinte sempre più estreme verso l'instabilità nelle parti del paese non strettamente sotto il controllo di uno dei due governi attualmente attivi ha fatto tornare un po' di buonsenso negli interlocutori». La Libia si sta consolidando sempre più come una specie di hub per le attività terroristiche, e gli ultimi mesi hanno fatto capire a tutti che la dimensione del fenomeno non è più soltanto locale o nazionale, ma ormai regionale. Recentemente, infatti, è stata registrata la presenza di Boko haram nel sud del paese, mentre in varie aree anche il gruppo Stato islamico sta aumentando la propria capacità di conquista. Entrambi i governi, complice anche una pressione della comunità internazionale tramite le Nazioni unite, si sono probabilmente sentiti spinti a cercare di convergere sul governo di unità nazionale, anche perché, racconta ancora Luongo, «maggiore stabilità e maggiore convergenza si traducono in maggiore condivisione delle istituzioni libiche da parte della comunità internazionale e questo si potrebbe concretizzare in un maggiore supporto verso la stabilità, quindi un supporto verso il contenimento e si spera la neutralizzazione dei terroristi». Il gruppo Stato islamico, insomma, a causa del suo ruolo destabilizzante potrebbe aver giocato involontariamente da elemento unificante per gli altri attori sul territorio.
«Il problema – racconta ancora Giuliano Luongo – è che una volta usciti dalle trattative ufficiali uno dei punti difficili era quello di mantenere in carica un soggetto in particolare, il generale Kalifa Haftar, un personaggio discusso sia per la sua vicinanza al governo egiziano sia perché è un ex ufficiale di Gheddafi», ed è qui che ci si è arenati.
Dopo il “no” di Tobruk, l’idea di Leon è quella di un prolungamento delle trattative, anche per evitare un pericoloso effetto a cascata che, sommato alla fretta di chiudere entro il 20 settembre, potrebbe rendere ancor più teso il clima. Partecipando alle trattative in Marocco, infatti, il governo di Tripoli ha rafforzato la propria posizione, mostrando quindi una disponibilità a fare passi in avanti sulla via del dialogo e mettendo nelle mani del governo rivale di Tobruk la responsabilità di far fallire le trattative. Dall’altra parte, però, la situazione è speculare: un cedimento su un punto fermo per Tobruk potrebbe spingere Tripoli a chiedere ulteriori concessioni prima di arrivare all'accordo finale.
C'è poi un ulteriore problema: a fine ottobre scade il mandato di Bernardino Leon, e arrivare a quella data senza un accordo potrebbe significare l’azzeramento di tutti i risultati ottenuti. Inoltre, la guerra in corso non finirà neppure con il governo di unità nazionale: a quel punto sarà necessario impostare una strategia contro lo Stato islamico, e ancora una volta sarà la comunità internazionale a doversi fare carico delle operazioni, tra equilibri fragili come quello tra Russia e Stati Uniti o tra Egitto e Iran e molti interrogativi ai quali sarà necessario rispondere per evitare che la Libia, che nel tentativo di essere trasformata in un paese liberato da decennali dittature è diventata una “nuova Siria”, diventi anche una “nuova Somalia”.