Iran, dopo la firma dell’accordo sul nucleare «comincia il difficile»
17 luglio 2015
I volti stanchi ma soddisfatti dei diplomatici il giorno della firma della storica intesa sul nucleare non sono soltanto una posa per i fotografi, ma anche un segno dell’impegno nel raggiungere quello che probabilmente è uno dei punti di partenza più importanti degli ultimi anni.
Tradizionalmente il 14 luglio viene ricordato, non solo in Francia, come data di avvio della Rivoluzione francese. Tuttavia, a partire da quest’anno questa data potrebbe segnare anche l’avvio di un cambiamento epocale in tutta la regione mediorientale. In questa data, infatti, si è concluso dopo oltre due anni di negoziati il lungo percorso che ha portato allo storico accordo sul nucleare iraniano tra l’Iran e i paesi del cosiddetto “5+1″, i membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con l’aggiunta della Germania.
In sintesi, i paesi occidentali hanno concesso all’Iran l’eliminazione progressiva delle sanzioni economiche imposte negli ultimi anni, mentre la repubblica islamica ha accettato di limitare il suo programma nucleare e permettere anche alcuni periodici controlli da parte dell’Aiea, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica.
Subito dopo la firma, l’Alto rappresentante dell’Unione europa per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, ha dichiarato che «non è solo un accordo, è un buon accordo, un buon accordo per tutte le parti». Ma è davvero così? Cerchiamo di capirlo insieme a Nicola Pedde, direttore dell’Institute of Global Studies e della rivista Geopolitics of the Middle East.
Credeva davvero che si potesse arrivare a questo accordo?
«Sì, perché i due grandi attori di questo negoziato, gli Stati Uniti e l'Iran, hanno dimostrato in ogni modo possibile di voler arrivare all'accordo, nonostante tanti problemi incontrati sul loro cammino, non soltanto a livello regionale e internazionale, ma anche all’interno dei rispettivi contesti politici nazionali, ostili per una serie di motivi diversi tra loro. Nonostante questo, i team negoziali hanno dimostrato come le due amministrazioni intendessero perseguire con decisione e ad ogni costo questo obiettivo, e quindi il risultato di Vienna è il coronamento di questo impegno. Credo che questo sia il risultato più importante, è un accordo win–win ed è un risultato epocale».
Sia il presidente iraniano Rohani sia quello statunitense Obama si sono affrettati a giustificarsi nei loro paesi, dicendo che «era l'unico accordo possibile», ma lei lo ha definito win–win. In che cosa è un accordo vincente per entrambi?
«Innanzitutto perché mette fine a una situazione anomala. Tutte le sanzioni, ma anche questo negoziato, si basavano su una presunzione; l'Iran infatti è stato l'unico paese firmatario dell’Npt, il trattato di non proliferazione nucleare, a essere oggetto di una procedura così stringente e severa senza aver mai trovato la “smoking gun” della sua intenzione di produrre ordigni nucleari, ed è per questa ragione che l'Iran riteneva particolarmente ingiusto l'intero processo negoziale. A parte questo, l'accordo riconosce all'Iran il diritto all'arricchimento dell’uranio e pone dei limiti a questa attività in modo tale da fornire garanzie alle controparti, ma ancora di più sblocca economicamente il paese, liberando una notevole forza economica nella regione e reinserendo gradualmente l'Iran tra gli attori tradizionali della regione. Anche dal punto di vista politico ci sarà il beneficio di avere un Iran normalizzato, che potrà interagire con gli interlocutori regionali e globali. Questo avrà importanti ripercussioni sul piano della sicurezza: non possiamo dimenticare, infatti, che l'Iran è praticamente l'unico vero attore, al di là di quelli autoctoni iracheni e curdi, che sta fisicamente combattendo contro le forze di Isis e ci sarà ovviamente un reinserimento dell'Iran nell'ambito del riequilibrio regionale».
Si vanno a creare delle nuove dinamiche regionali che possono coinvolgere, più ancora di Israele che si dice molto preoccupata, coinvolge ancora più l'Arabia Saudita e le monarchie del golfo. È così?
«Assolutamente sì. C'è una sostanziale differenza nelle posizioni tra Israele e le monarchie del golfo. Per Israele c'è una questione di natura politica che riguarda l'Iran: Netanyahu lo ha trasformato nella minaccia esistenziale per eccellenza, l'ha reso il proprio “grimaldello politico” per la campagna elettorale e la rielezione, e quindi ha un valore puramente simbolico. Ben diversa è per esempio la concezione in termini strategici, come hanno ricordato più volte i vertici delle forze armate e dell'intelligence israeliana, non condividendo nel modo più assoluto la visione del premier e ridimensionando fortemente le capacità e le volontà belliche soprattutto da parte dell'Iran. Quindi è un accordo che, al di là della facciata, accontenta tutti, offre delle garanzie che Israele non avrebbe mai avuto dal punto di vista strategico e offre un vantaggio politico per il premier Netanyahu che potrà continuare a utilizzare l'Iran come una sorta di bogey man regionale.
Diverso è invece il caso dell'Arabia Saudita e delle monarchie del Golfo. Per alcune di queste, l'Iran rappresenta il modello antagonista dell'Islam politico, rappresenta il modello bottom up, partecipativo, non legato alle dinamiche di discendenza dinastica delle monarchie, un paese in cu c'è una forma di partecipazione, dove ci sono elezioni che permettono di portare un parlamento, un governo, a intervalli regolari a guidare il paese. Rappresenta tutto ciò che è l'antitesi del modello politico delle monarchie del Golfo. Un consolidamento dell'Iran e del suo modello politico nella regione, pur con tutti i problemi di democrazia e pluralismo se guardato con gli occhi di un occidentale, per questi sistemi politici è una minaccia gravissima, perché significa portare il germe del pluralismo politico all'interno delle società locali, un gravissimo pericolo di continuità per il ruolo di queste monarchie. Su questo, più ancora che sul dualismo sciiti–sunniti, si innesta la questione».
L’Iran è un paese che in questo momento potrà vedere un dispiegamento di potenzialità politiche ed economiche enormi, inoltre è un paese giovane, in cui molte persone hanno vissuto sempre all'interno del regime politico degli ayatollah. Ci potranno essere delle ripercussioni interne?
«Non credo ci sarà né un rafforzamento né un indebolimento del regime. Ci sarà un'evoluzione, così com'è in corso una evidente transizione generazionale. Convivono tre generazioni in Iran: la prima è quella di chi ha fatto la rivoluzione, ha creato le dinamiche del potere come oggi lo conosciamo e come oggi è articolato nelle istituzioni. C'è poi una seconda generazione che non è teocratica perché la teocrazia non ha replicato se stessa in termini generazionali, tanto che la guida suprema è un settantacinquenne. Le nuove leve del potere vengono tutte da questa seconda generazione, che affonda le sue radici nell'ambito delle ex forze armate, nel sistema dei pasdaran, nelle alleanze formate durante la guerra Iran–Iraq e non durante la rivoluzione. C'è poi una terza generazione che è numericamente la più grande e che possiamo quantificare nel 70–75% della popolazione, quella degli under 35, quindi tutti quegli iraniani che non hanno nulla a che vedere né con la rivoluzione né con la guerra Iran–Iraq, che sono nati a cavallo di questi eventi ma che non vi hanno partecipato e che hanno formato il loro pensiero politico in fasi successive.
Ecco, su questo ci sarà sicuramente un forte apporto di novità in futuro. Che questo apporto sia così sostanzialmente diverso da come oggi è organizzato il paese onestamente non mi spingerei a dirlo. Credo che ci sarà una trasformazione all'interno di questo sistema, che è esattamente quello che chiedono i riformisti, che non desiderano l'abbattimento del sistema di governo, ma una riforma. Credo si andrà in questa direzione, e questo accordo rafforza enormemente questo processo. Nelle prossime elezioni parlamentari, di maggio–giugno 2016, avremo sicuramente un parterre politico che verrà rinnovato con numerosi esponenti di area riformista e pragmatica, che porteranno in parlamento le istanze di questa sempre più grande componente generazionale che rappresenta il grosso dell'elettorato e della popolazione iraniana».
Lei ha utilizzato il termine “pragmatico”, e il pragmatismo è stata davvero la cifra distintiva di Javad Zarif e di Hassan Rohani. Da questo accordo le loro figure escono molto bene, ma avranno anche la forza di applicare concretamente l’accordo?
«Adesso comincia il difficile. Dopo la ratifica dell’accordo da parte del parlamento iraniano e del Congresso statunitense ci sarà un lungo periodo, di almeno un anno e mezzo o due, che dovrà attraversare le elezioni parlamentari in Iran e le presidenziali negli Stati Uniti, nel quale andrà costruita la fiducia reciproca, l’elemento più deficitario e che richiederà agli attori di lanciarsi segnali di benevolenza e cooperazione, e questo sarà l'aspetto sicuramente più impegnativo.
Sarà comunque difficile poter ostacolare questo processo, nel senso che gli oppositori di questo accordo ci sono e non sono né pochi né deboli, ma il problema è che il prezzo politico per abbattere questo accordo o per diminuirne la portata è elevatissimo. Qualsiasi candidato alle parlamentari iraniane o alle presidenziali statunitensi che volesse sfidare questo accordo, quindi che volesse depotenziarlo o addirittura revocarlo, dovrà essere pronto a pagare un prezzo politico insostenibile».