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L’Africa e la consapevolezza di un nuovo colonialismo

L’appello rivolto ai giornalisti dal missionario Alex Zanotelli per illuminare quanto sta avvenendo nella Repubblica Democratica del Congo 

L’appello rivolto ai giornalisti dal missionario Alex Zanotelli per illuminare quanto sta avvenendo nella Repubblica Democratica del Congo è l’ennesima riconferma della concreta indifferenza con cui ‘l’umanesimo variabile’ dell’occidente affronta le crisi africane.

Al di là di oceani verbali, retorici proclami, impegni presi e mai mantenuti, l’Africa chiude questo 2022 con un problematico bilancio su molteplici fronti.

Il virus di Ebola è spettralmente riemerso in Uganda, dove si contano 22 morti nel solo mese di dicembre che si aggiungono alle 55 vittime registrate negli 11 mesi precedenti. Nella Repubblica Democratica del Congo il virus è ormai endemico, con un incremento di casi nel Nord Kivu.

L’epidemia di Covid ha inferto un ulteriore colpo alle già fragili strutture sanitarie, mettendo molte nazioni in ginocchio riducendo sul lastrico vasti strati della popolazione. Il conflitto russo-ucraino ha causato l’importazione di cereali, provocando 40 milioni di affamati e l’aumento dei prezzi di benzina e fertilizzanti.

Povertà diffuse ed esasperate dalla desertificazione di un continente che fino agli anni Settanta era quasi autosufficiente dal punto di vista alimentare, ed oggi assiste impotente ad una diffusa siccità all’origine della carestia. Le nazioni africane - nei vari meeting internazionali - hanno ribadito la loro contrarietà alle draconiane misure proposte dall’occidente per fermare il degrado ambientale spiegando che proprio l’Africa è il continente che inquina di meno e che ora subisce le conseguenze di dissennate scelte di altri. Una transizione ecologica come suggeriscono i paesi più inquinanti sarebbe una ulteriore penalizzazione.

Il 2022 si chiude con il conflitto civile tra Etiopia e Tigray in corso da due anni che ha già mietuto 500 mila vittime e creato milioni di rifugiati e sfollati. Il trattato di pace firmato in Sudafrica resta una cornice perché il quadro va riempito di contenuti. I 12 mila soldati inviati in missione di pace dall’Eac (Comunità dell’Africa Orientale) dovrebbero sovrintendere alla difficile pace in costruzione.

La minaccia del terrorismo islamista incombe sul Sahel, in particolare su Burkina Faso e Mali dove solo quest’anno i jahidisti hanno fatto 9 mila vittime. Gli atti di violenza sono quadruplicati dal 2019. E desta forti preoccupazioni il focolaio terroristico che infiamma Cabo Delgado, nel nord del Mozambico.

L’instabilità politica è un denominatore fin troppo comune per Mali, Guinea, Sudan, Ciad, Burkina Faso, paesi dove dal 2020 ad oggi i colpi di stato hanno deciso la sorte dei cittadini. Falliti invece i golpe in Sao Tomè, Principe e Gambia. Resta impervio il cammino per la stabilità in Sudan. In Sudafrica dall’uscita di scena di Mandela nessun presidente si è rivelato in grado di guidare il paese. Anche sull’attuale presidente Ramaphosa ci sono troppi e pesanti sospetti di corruzione, arricchimento facile, mancanza di volontà di sconfiggere il sistema corruttivo, di cui è probabilmente egli stesso parte integrante.

Il summit di metà dicembre a Washington tra Stati Uniti e 49 capi di stato africani ha segnato il ritorno dell’interesse americano verso il continente. Un interesse dettato dalla impietosa agenda internazionale che vede Cina e Russia rafforzarsi quotidianamente in Africa e nazioni come India, Turchia e Giappone molto attive nell’organizzazione di meetings.

Il vertice si è tenuto a distanza di otto anni dall’ultimo del presidente Obama nel 2014. Nel frattempo, la Cina di forum con i capi africani ne ha tenuti otto dal 2000 ad oggi. Biden sta cercando di ridurre i danni causati dall’amministrazione Trump, che passerà alla storia per gli insulti rivolti all’Africa ed il totale disinteresse. Ma va anche colmata la distanza causata dalla delusione per la scarsa attenzione di Obama verso il continente, nonostante le sue radici africane.

L’obiettivo di Washington (specialmente nel pieno del conflitto in Europa) è contrastare la presenza di Mosca e Pechino. La sveglia per il “sonnecchiante Joe” è suonata quando all’assemblea generale dell’Onu la metà degli stati africani non ha votato a favore della condanna dell’invasione russa. Tra l’altro ad intimorire gli Usa è anche la costruzione di una base navale cinese nella Guinea Equatoriale.

Per fermare l’invasione cinese (principale partner economico dell’Africa con investimenti per 254 miliardi di dollari nel 2021 a fronte dei 64 miliardi americani), Washington ha favorito l’ingresso dell’Unione Africana nel consiglio di sicurezza dell’Onu e come membro permanente del G20. E c’è l’impegno per investire 55 miliardi di dollari in 3 anni per sviluppare economia, sanità e sicurezza ovvero il settore militare e delle armi.

L’Africa dal canto suo continua a chiedere di prorogare o rinegoziare il debito ingigantito dalla crisi del coronavirus, accordi per la fornitura di armi, frenare la spinta alla transizione energetica e l’assistenza per i danni causati dai cambiamenti climatici causati dai paesi ricchi.

La “corsa per fare del bene” all’Africa è cominciata. Gli attori sono tutti interessati a ritornare protagonisti, come negli anni della guerra fredda. Il continente resta strategico ma c’è anche la consapevolezza di un nuovo colonialismo più pericoloso ed invasivo del passato.

*L’articolo che riprendiamo per gentile concessione dell’autore è stato pubblicato sul sito Articolo 21.org. Nucci cura anche una rubrica d’informazione sull’Africa per il mensile Confronti

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