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Afghanistan e Siria, vecchi e nuovi narcostati

Conflitti e crisi economica stanno spingendo i due Paesi verso produzioni sempre maggiori di droghe, e i governi sembrano essere per nulla interessati a bloccare l’industria della droga

Dopo aver conquistato l’intero Afghanistan a seguito del ritiro delle truppe occidentali, il governo dei talebani ha promesso che avrebbe portato avanti una dura battaglia alla produzione della droga. Secondo il report annuale dell’UNODC, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine, l’Afghanistan è infatti il primo produttore al mondo di oppio, e la vera e propria industria che permette la sua trasformazione in eroina garantisce un export con ramificazioni in tutto il mondo. Bloccare del tutto una produzione così fiorente sembra però una prospettiva irrealizzabile, e con forti ripercussioni sulle migliaia di persone che fanno della coltivazione dei papaveri da oppio la loro principale fonte di reddito: nel 2018 l’UNODC stimava che gli introiti di questo settore contribuissero circa all’11% dell’economia del Paese.

Di fatto, quindi, le esportazioni di droghe illegali continuano, ma all’eroina negli ultimi anni è andata ad aggiungersi una nuova metanfetamina ricavata dalla raffinazione di una pianta spontanea. I costi di produzione molto limitati permetterebbero un rilancio sul mercato internazionale, con conseguenze dirette per l’economia afgana. Un allarme a questo proposito è stato lanciato dall’EMCDDA, l’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze, che stimava già un anno fa una possibile produzione di diverse migliaia di tonnellate annue di questo prodotto. Secondo gli esperti la disponibilità sul mercato di un prodotto molto puro e con costi contenuti potrebbe spostare gli equilibri della distribuzione internazionale di droghe illegali: proprio per questo l’EMCDDA sottolinea come l’Europa dovrebbe prepararsi al meglio per affrontare un simile scenario. Dal punto di vista dell’Afghanistan una forte presenza sul mercato globale significherebbe però un effetto molto positivo sull’economia generale, in particolare su quella delle regioni del sud-ovest del Paese. Se effettivamente i talebani decidessero di condurre una guerra alle droghe illegali dovrebbero correre il rischio di inimicarsi i grandi produttori, con la possibilità che si inneschino ribellioni nelle regioni rurali. Senza contare il fatto che il governo incamera molto denaro attraverso la tassazione imposta sulle droghe, pari a circa il 10% sulla coltivazione di papaveri da oppio.

Una situazione per certi versi simile è quella che si sta verificando in Siria. Al contrario dell’Afghanistan, il Paese non ha una storia radicata come produttore ed esportatore di droghe illegali, ma negli ultimi mesi ha preso il via una fiorente produzione di captagon, un’anfetamina molto popolare negli Stati arabi ma diffusa anche in Europa. Come sottolinea con un’immagine molto forte eppure esemplificativa il New York Times, questa industria della droga ha messo radici nelle ceneri di un Paese devastato da dieci anni di guerra, la cui economia è a pezzi e le sanzioni imposte da Stati Uniti e Unione Europea hanno pesanti ricadute anche sulla popolazione.

I grandi produttori non provengono da zone rurali del Paese come accade in Afghanistan: gran parte della produzione e della distribuzione avvengono sotto gli occhi vigili della Quarta divisione corazzata dell’esercito governativo siriano, guidata dal fratello del presidente Bashar al-Assad. A questa vanno poi aggiunti diversi uomini d’affari strettamente legati con il governo. Il conflitto sembra aver generato da un lato difficoltà economiche anche per i membri dell’élite, ma dall’altro ha aperto nuovi sbocchi di mercato e nuovi margini di guadagno.

Anche in questo caso il più grande ostacolo alla lotta al commercio di droghe illegali è rappresentato dallo Stato stesso, che ha ben poche ragioni per chiudere un canale che genera così ampi profitti.

 

 

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