In Libia tra la vita e la morte. Un nuovo rapporto di Amnesty International
01 ottobre 2020
Testimonianze, dati e documenti sulla detenzione delle persone migranti in un Paese senza legge e senza diritti
Punti d'arrivo, punti di partenza. Il percorso migratorio viene spesso visto come una linea tra due estremi, ma la realtà è che tra i luoghi più critici vanno considerati quelli di transito. Dai campi profughi sulle isole greche a quelli informali in Libano, dalle città come Agadez, in Niger, a un intero Paese, come la Libia, che rappresenta per molti un vicolo cieco.
Tra maggio e settembre 2020, Amnesty International ha raccolto informazioni sulle condizioni di detenzione in questo Paese, investigando almeno 13 luoghi di detenzione, tra cui sei direttamente gestiti dal Dipartimento del governo per l’immigrazione illegale. Il rapporto, intitolato Tra la vita e la morte: il circolo vizioso di crudeltà nei confronti di rifugiati e migranti in Libia arriva subito dopo la presentazione del nuovo “Patto sulla migrazione” da parte della Commissione europea, che promette di superare alcuni principi del Regolamento di Dublino, ma anche di rafforzare le frontiere esterne attraverso una cooperazione sempre più stretta con i Paesi esterni all'Unione europea.
Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, spiega che «è una raccolta di testimonianze di persone che ce l'hanno fatta a fuggire dalla Libia, di familiari angosciati per la sorte dei loro cari nei centri di detenzione ufficiali e non ufficiali, di interviste ad associazioni. Il quadro è quello che si conosce già: un ciclo di violenza terribile che coinvolge migliaia di migranti e rifugiati intrappolati in un Paese, la Libia, che è anche in conflitto interno».
Oltre al lavoro con i testimoni, nel rapporto si trova l’analisi delle immagini satellitari di alcuni tra i luoghi-chiave della detenzione, come al Zawiyah, una città strategica 45 km a ovest di Tripoli, dove le condizioni di detenzione si sposano con una estrema militarizzazione.
Eppure, nonostante questi crimini siano sotto gli occhi di tutti, la Libia continua a essere il punto di riferimento delle politiche europee, in particolare per l'Italia, in tema di immigrazione.
Tra le varie testimonianze emerge il fatto che il problema non siano soltanto i centri di detenzione. Che cosa si intende?
«Intanto il problema non è solo quello dei centri di detenzione ufficiali, gestiti dal ministero dell'Interno. È emerso che molte delle persone intercettate in mare dalla autoproclamata Guardia Costiera libica, finanziata dall'Italia, finiscono in centri di detenzione non ufficiali, che sono gestiti dalle milizie. Lì vengono veramente inghiottiti in un buco nero. Ma in quest'ultimo emerge anche la condizione di quelli che, fuori dai centri, sono costretti a nascondersi e a vivere in condizioni subumane, sempre di più oggetto di razzismo, sfruttamento e anche accusati dalla vulgata comune e ufficiale di essere i portatori del Covid-19».
La Libia è il luogo su cui sia l’Italia sia l’Europa hanno puntato di più negli ultimi decenni come frontiera esterna, tanto durante la dittatura di Gheddafi, tanto oggi. Dobbiamo considerarci responsabili nell'aver creato questo sistema di abusi?
«Le responsabilità dell'Europa e dell'Italia vanno cercate nelle sue politiche di contrasto e contenimento dell'immigrazione, come se appunto si trattasse di contrastare un virus. Questo sistema prevede accordi multilaterali, bilaterali, politiche di respingimento e di chiusura. L'Italia è stata alla guida di tutto questo ed è alla guida ancora oggi. In fondo, anche quell'accordo del 2008 Berlusconi-Gheddafi in cui si riparava ai torti storici parlava di immigrazione, e quell'accordo l'hanno rinnovato tutti i governi che si sono susseguiti dopo la fine della dittatura di Gheddafi, fino ad arrivare primo memorandum d'intesa, che ha avuto come artefice il ministro dell'Interno dell'epoca, Minniti. Quel memorandum con la Libia ha sancito che Tripoli è il nostro partner eletto per trattenere i migranti e non farli partire più per il Mediterraneo. Come sappiamo, è stato rinnovato negli ultimi mesi».
Considerato che viviamo in un’epoca di crisi del diritto internazionale, che possibilità di intervento abbiamo per la tutela dei diritti umani in un Paese come la Libia, schiacciato dalla guerra civile e dai tanti attori stranieri che vi partecipano?
«Noi sosteniamo che la cooperazione con la Libia in materia di immigrazione debba essere sospesa fino a quando il governo di Tripoli, le autorità libiche, annullino il reato che prevede la detenzione obbligatoria per gli ingressi irregolari, riconoscano lo status di rifugiato attraverso l'adesione alla relativa convenzione Onu del 1951, evacuino i centri di detenzione, collaborino con le autorità dell'Italia ma anche di altri Paesi a un piano di ricollocamento per i migranti e i rifugiati che sono trattenuti nei vari centri di detenzione. Inoltre, rimane un tema che è politico, ma anche secondo me giuridico. Con l'istituzione della cosiddetta Guardia Costiera libica, l'Italia è complice di crimini di diritto internazionale. In altri termini, stiamo parlando di respingimenti per procura».
Come viene percepito all'estero quanto fatto dall'Italia, per esempio con gli accordi Italia-Libia?
«L'Italia sta collezionando rapporti su rapporti dei vari special rapporteur delle Nazioni Unite che descrivono la situazione della Libia, che parlano di crimini contro l'umanità tirando in ballo anche la Guardia Costiera, ed è evidente che quella Guardia Costiera qualcuno l'ha battezzata. Però la politica non ha questa indignazione: alla fine fa comodo a tutti che l'Italia faccia il lavoro sporco. Siamo abbastanza vicini a quel modello australiano che in tanti elogiano e che significa tenere le persone lontano dalla frontiera marittima, in mezzo al mare o in questo caso in mezzo a un Paese come la Libia in cui non c'è legge, non c'è Stato di diritto, non c'è nulla».