L’emergenza Covid sulla pelle delle donne
10 luglio 2020
La Comunione anglicana risponde alla richiesta della relatrice speciale dell’Onu sulla violenza contro le donne, Dubravka Šimonović, con un report dettagliato
Violenze domestiche, violenza contro le donne: un tema sempre attuale, che nel periodo di lockdown imposto dal Covid-19 ha alzato il livello di allarme, per il rischio di peggiorare la situazione e, allo stesso tempo, farla passare sotto silenzio.
Abbiamo segnalato nelle scorse settimane diverse iniziative, in Italia e all’estero, appelli come quello delle chiese protestanti britanniche riunite nel Joint Public Issues Team per una maggior tutela o quello dei promotori internazionali dei “Giovedì in nero”, la denuncia della rete italiana contro la violenza sulle donne (D.i.Re) e della Federazione delle donne evangeliche in Italia, o ancora l’iniziativa del Movimento femminile evangelico battista che ha recentemente realizzato un breve spot per sensibilizzare al tema.
Un’iniziativa di raccolta dati e azioni contro questo dramma universale viene dal mondo anglicano: la Mothers’ Union e il Consiglio consultivo della Comunione anglicana, infatti, a fine giugno hanno inviato all’Alto Commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite un rapporto sul tema delle violenze domestiche durante l’emergenza Covid-19.
Lo scritto è stato prodotto a seguito della richiesta di dati sull’aumento della violenza domestica durante la pandemia, fatta dalla giurista Dubravka Šimonović, dal 2015 relatrice speciale alle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne.
A questo appello hanno risposto appunto, tra gli altri, il braccio legislativo e governativo della Comunione anglicana, presente in più di 160 paesi del mondo con 85 milioni di membri, e la Mothers’Union, nata nel 2000 all’interno della Comunione anglicana. Questa organizzazione non governativa è un movimento internazionale con 4 milioni di membri in 83 paesi, impegnata nel «dare voce alle persone stigmatizzate e vulnerabili del mondo, in particolare nell’ambito della giustizia di genere», come si legge nell’introduzione al documento.
Il testo sottolinea le buone pratiche adottate in varie parti del mondo da governi, ong e comunità di fede per contrastare il fenomeno, citando numerosi esempi di province anglicane, Nuova Zelanda, Burundi, Guyana, Canada, Uganda, Liberia, Congo, Australia, Papua Nuova Guinea, Rwanda, e le regioni del Sudafrica, nord-est Caraibi e Aruba (Neca) e Oceano Indiano.
Il documento cita per esempio l’organizzazione Rwamrec, che in Rwanda promuove l’uguaglianza di genere e un “modello maschile positivo”, o analoghe iniziative in Canada e Nuova Zelanda, oltre alle campagne di informazione e alla fornitura di cibo e beni per la pulizia.
Ma indubbiamente la parte più corposa del documento è una rassegna delle conseguenze drammatiche sulle condizioni femminili nel mondo.
Il testo evidenzia i casi più preoccupanti, a livello numerico e percentuale, in Uganda, Sudafrica e Liberia, un aumento di richieste di aiuto del 21% in Nuova Zelanda, il passaggio dai “normali” 4-5 casi al giorno a 4-5 all’ora in Guyana, e la regione del Sudafrica ha registrato più di 120.000 chiamate alla linea telefonica nazionale per gli abusi. Un aumento di telefonate, legate non solo alle violenze domestiche ma anche a problemi di salute mentale, è stato registrato nelle linee dedicate anche in Nuova Zelanda, Guyana, Canada, Uganda, Liberia e Burundi.
Se in Burundi la situazione era meno drammatica per il basso livello di contagi, in Uganda, Rwanda, Liberia, Repubblica democratica del Congo si è assistito ad aumenti di gravi abusi in famiglia o sul posto di lavoro, in Rwanda (dice il rapporto) il 65% delle donne ha testimoniato un aumento della violenza da parte del proprio partner. In Canada, la diminuzione di richieste nei centri di aiuto fa temere che le donne siano rimaste “intrappolate” proprio a causa del lockdown.
Il problema della deroga alle limitazioni, scrivono gli anglicani, è stato in parte arginato da alcuni paesi africani, come il Sudafrica, il Rwanda e il Burundi, dove è stato detto pubblicamente che le donne vittime di violenza possono lasciare le loro case, assicurando loro speciali protezioni e rifugi. Purtroppo, in questi come negli altri paesi, si è presentato il problema dell’esaurimento dei posti, in alcuni casi (Nuova Zelanda, Australia, Caraibi, Burundi, Uganda) si è creata una rete di solidarietà che ha coinvolto case private, motel e AirBnB.
Un altro aspetto indagato nella relazione del Consiglio consultivo e della Mothers’ Union è l’accesso delle donne alla protezione giudiziaria/legale e al sistema sanitario, con un focus particolare sulla salute riproduttiva: i paesi che hanno avuto le maggiori chiusure dei servizi sono stati Canada, Australia e Nuova Zelanda, ma altrove le difficoltà di accesso sono state legate soprattutto alla mancanza di dispositivi di sicurezza e ai problemi di trasporto, soprattutto nelle zone rurali.
La difficoltà nei trasporti, si osserva in un altro paragrafo, è peraltro un altro fattore che soprattutto in alcuni paesi (Guyana, Liberia, Repubblica democratica del Congo) ha esacerbato il problema degli abusi familiari, così come la mancanza di denaro e, non ultimi, i dogmi culturali che vincolano le donne, dal Canada all’Africa alla Nuova Zelanda.
Il documento si può leggere sul sito della Comunione Anglicana, nella pagina relativa alla rappresentanza all’Onu a Ginevra e New York. Attraverso un ufficio dedicato, questa chiesa (come altre che hanno un proprio ufficio all’Onu) porta le sue istanze e le competenze, nonché le esperienze “sul campo”, per favorire la collaborazione fra Onu, chiese e società, in particolare nell’ottica degli obiettivi di sviluppo sostenibile. Gli ambiti d’azione dell’ufficio anglicano riguardano: migrazioni, diritto d’asilo, diritti umani, delle donne e delle popolazioni indigene, salute, ambiente.