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Un altro anno di sanzioni per la Siria

L’Unione europea ha rinnovato per 12 mesi le misure finanziarie contro l’élite politica di Damasco. Ma chi ne paga il prezzo? Intervista con Marco Pasquini (Armadilla)

Lo scorso 28 maggio il Consiglio dell'Unione europea ha prorogato le sanzioni nei confronti del governo siriano di Bashar al-Assad per un altro anno, fino al primo giugno 2021. Nel comunicato che accompagna questa decisione, l'Unione europea afferma di aver deciso di mantenere le misure restrittive per punire «la repressione contro la popolazione civile». Josep Borrell, Alto rappresentante per gli affari esteri e per la politica di sicurezza, spiega che «le sanzioni dell'UE riguardano i responsabili delle sofferenze della popolazione, i membri del regime siriano, i loro sostenitori e gli imprenditori che lo finanziano e traggono vantaggio dall'economia di guerra», aggiungendo poi che «l'Unione europea è determinata a continuare a sostenere il popolo siriano e rimane impegnata a utilizzare tutti gli strumenti a sua disposizione per fare pressione affinché si arrivi a una soluzione politica». Le sanzioni europee, imposte sin dal 9 maggio 2011, sono oggi uno dei principali strumenti della politica dell’Unione europea in Siria, ma sono in molti a ritenere che non siano riuscite nel loro intento dichiarato, ovvero punire l’élite politica del Paese.

«ho sempre detto - ricorda Marco Pasquini, direttore della Cooperativa Armadilla, attiva da molti anni in Siria con progetti di partenariato territoriale - che Bashar ha avuto tutto il tempo di salvare le sue risorse e quindi di mettersi in sicurezza. Non so quindi se hanno colpito questa classe dirigente, ma stiamo parlando di pochissime persone, e non so se hanno colpito le persone che comunque sono responsabili di grandi sofferenze all'interno della Siria. E non mi interessa neanche saperlo perché sono un numero irrilevante che comunque mediamente hanno già altre soluzioni».

Quindi chi sono i principali destinatari reali delle sanzioni?
«Il 90% della popolazione, la popolazione che già viveva in una situazione precaria prima della guerra e che adesso è molto più grave. La popolazione sta soffrendo in maniera disumana. Oggi è bloccata qualsiasi tipo di attività commerciale anche con l'unico Paese oggi aperto, che è il Libano, le sanzioni finanziarie hanno bloccato qualsiasi tipo di attività. Ma la cosa più grave non è tanto la sanzione in sé, ma è il fatto che queste sanzioni si vanno poi a sommare a quelle americane, che invece sono ancora più gravi per un altro motivo. È complicatissimo capire che cosa sia vietato e che cosa non sia vietato, ma questo comporta, un po' nella logica anche delle sanzioni con Teheran, che qualsiasi attore occidentale che in qualche modo voglia o abbia necessità o ha interessi a operare con la Siria, perché magari storicamente ci ha lavorato, sia automaticamente bloccato dal sistema finanziario, perché nessuna banca in questo momento si assume l'onere di agire. In questo modo si mettono in ginocchio anche tutte quelle situazioni che con la guerra e con le sanzioni non c'entrano assolutamente nulla».

Negli ultimi anni si è parlato della Siria a proposito delle aree di conflitto, delle zone del fronte, quindi si Idlib o del nord-est, ma di aree come Damasco si parla molto di meno. Qual è oggi la situazione, soprattutto economica e di stile di vita della capitale?
«In questi anni di guerra Damasco è stata toccata in modo per lo più indiretto rispetto alla distruzione di molte altre parti del Paese. Però Damasco ha vissuto un grande esodo in entrata, arrivando a punte di circa 11 milioni di abitanti rispetto ai tre milioni di prima della guerra, parlando anche della "grande Damasco", di tutta la Damasco rurale. La capitale ha subito l'esodo dell'immigrazione contraria: molti siriani colpiti dalla guerra vicino ai confini con Iraq, Giordania, Libano e Turchia sono usciti dal Paese, mentre il resto della popolazione si è ammassata dentro Damasco o intorno a Damasco. Oggi in città da un punto di vista militare non si vive nessun problema, ogni tanto si sente ancora qualche bombardamento preannunciato da parte di Israele su aeroporti, bunker o depositi vicino a Damasco, ma oggi in città non si parla più di guerra combattuta. La tragedia di Damasco è un'altra, è economica».

Ecco, che cosa si intende quando si parla della crisi economica della città?
«Parto da alcuni dati delle Nazioni Unite: rispetto a gennaio 2010, quindi dopo dieci anni, qualunque acquisto sul mercato è aumentato mediamente di 27 volte, e solo negli ultimi cinque mesi il costo al dettaglio delle derrate alimentari è triplicato. Il consumo della carne ha avuto un taglio del 95 per cento, e immaginate che cosa possa significare su una popolazione già sufficientemente stremata. Negli ultimi cinque anni la disponibilità di energia elettrica è calata del 30-35 per cento. Il governo siriano ha organizzato una specie di tessera per razionare la distribuzione di generi di prima necessità, e nello stesso momento è cresciuto anche il mercato nero. Oggi un dollaro in banca viene cambiato a 480 Syrian Pound, ma al mercato nero, o come dicono i siriani “mercato vero”, un dollaro viene cambiato a 1.600, quindi quasi quattro volte di più. Allo stesso modo, nella tessera di distribuzione da parte del governo si ha diritto ogni 30 giorni a una bombola del gas che mediamente serve per una famiglia di 5 o 6 persone. Questa bombola nella tessera viene a costare circa 6.000 Syrian Pound. Sul mercato nero la stessa bombola costa circa 24.000 Syrian Pound. Questo per far capire la totale distruzione anche del mercato più elementare, ma comunque più necessario in una situazione di embargo totale. In questo momento la situazione a Damasco è una situazione di congelamento, ma siccome non si possono congelare le vite umane, è una condizione di pura e gravissima povertà».

C’è un settore, quello della cooperazione internazionale, che dovrebbe essere tutelato rispetto alle sanzioni, garantendo quindi l’afflusso di aiuti medici, aiuti umanitari, pacchi alimentari e fondi per lo sviluppo. Per tutto questo, che cosa cambia con il rinnovo delle sanzioni?
«Con il rinnovo delle sanzioni non cambia nulla. Noi abbiamo sperato molto, abbiamo anche fatto pressioni su Bruxelles, affinché con la scadenza e quindi con il rinnovo ci fosse un alleggerimento o perlomeno una nota di chiarimento sull'azione esplicita degli aiuti umanitari. Le sanzioni del maggio del 2012 a un certo punto dichiarano che tutte le azioni umanitarie non hanno nessun obbligo e quindi noi che operiamo in Siria da tanti anni, da ormai 15 o 16 anni, nel momento in cui avevamo letto di queste sanzioni nel 2012 non ci eravamo preoccupati, perché tutte le azioni sia finanziarie di acquisti, trasferimento di persone e di merci sarebbero state esenti. Tuttavia, non è vero per niente, perché non abbiamo trovato una sola banca italiana disposta a trasferire soldi in Siria e man mano che le sanzioni sono calate sul terreno nessun fornitore ha voluto collaborare con noi. Anche tutti gli aiuti umanitari, che per scelta anche strategica e per logica abbiamo sempre comprato anche nell'area, ora sono bloccati, perché è venuto a mancare nell'ultimo periodo anche l'interlocutore libanese, visto che il Libano vive una crisi finanziaria che lo sta portando sull'orlo di una guerra civile. Anche lì si è bloccato qualsiasi tipo di partenariato commerciale. Quindi le sanzioni non toccano in teoria le azioni di aiuto umanitario, ma fondamentalmente le bloccano come qualsiasi altra azione».

E qui arriviamo sulla inazione, cioè quella dell'Unione europea. L'abbiamo già citata più di una volta: l'Unione europea nel contesto siriano si è sempre mossa in modo piuttosto balbettante. L’impressione è che questo rinnovo rappresenti la scelta di non decidere e di rinviare di un altro anno il problema. Tuttavia, ragionando in termini più ampi, in un momento come questo in cui gli Stati Uniti e la Cina sono molto impegnate in una battaglia reciproca e hanno grossi problemi interni su cui concentrarsi, l’Unione europea avrebbe potuto assumere un ruolo più centrale nella gestione della crisi siriana. È un’occasione persa?
«Questa è una storia che va avanti dall’inizio: ricordo perfettamente che nel momento in cui il conflitto siriano stava scoppiando, parlando con diversi consiglieri a Bruxelles sentivo dire che sarebbe stata una guerra che si sarebbe risolta in qualche settimana. Noi, che conosciamo abbastanza bene quell'area, ritenevamo invece che le cose sarebbero andate in modo molto diverso e che la guerra avrebbe coinvolto tutta l'area. Infatti, se non altro per la tragedia dei milioni di profughi che girano tra Turchia, Kurdistan iracheno, Giordania e Libano, la profezia di Bruxelles non si è compiuta. Condivido quello che sta dicendo: è una non scelta. In questo momento l'Unione europea, forse presa giustamente dal COVID-19, o forse perché non riesce a mettere insieme gli interessi, da quelli francesi a quelli tedeschi, e anche quelli inglesi fino a poco tempo fa, non hanno voluto scegliere e si sono accodati dietro la scelta del piano americano chiamato Caesar. Ma la cosa che mi colpisce in tutta questa storia è che il delegato europeo a Beirut, che è un delegato per la Siria ma in questo momento per problemi di sicurezza è nella sede di Beirut, qualche giorno fa ha tirato fuori una serie di dati assolutamente veri, dicendo che fino ad oggi in nove anni l'Unione Europea ha speso 21 miliardi sulla crisi siriana. E viene da pensare: ma con una potenza di fuoco così importante possibile che l'Unione Europea non abbia trovato un ruolo di maggiore incisività nell'area?»

E quindi che cosa c’è in questi numeri?
«Non so quanti miliardi siano stati dati alla Turchia per la compravendita di profughi, non so quanti siano i miliardi che l'Unione Europea ha speso per tutta l'immigrazione in Europa da parte di questi profughi, che vengono conteggiati qui dentro. Ma la verità è che, anche che fossero 21 miliardi spesi all'interno della Siria, sono stati spesi malissimo perché non c'è visibilità dell'Unione europea in Siria, non c'è un approccio politico, non c'è un contatto politico con il governo per cercare una mediazione diplomatica. Tutti i governi dell'Unione europea, compreso Borrell e compreso anche il governo italiano, dicono che non esiste una soluzione militare, ma forse per un'altra soluzione, che non può essere che quella diplomatica, bisogna essere incisivi, bisogna lavorare, bisogna essere propositivi. Non si può pensare di risolvere la situazione aspettando la caduta di Assad, anche perché se la situazione è così, dopo un Bashar ci sarà un altro Bashar. In questo momento, come negli anni passati ma tanto più in questo momento, ci sarebbe un ruolo enorme per l'Unione Europea, perché adesso noi abbiamo un Paese congelato, abbiamo la componente iraniana ferma, abbiamo la componente russa ferma, perché la Russia sta vivendo una crisi finanziaria enorme e comunque ha raggiunto il suo obiettivo, cioè i due porti nel Mediterraneo che voleva e se li è confermati, oltre a una presenza all'interno del Medio Oriente. Allo stesso modo, la Turchia ha ripreso il nord-est e ha armato i propri confini. Quindi qual è l'unica possibile soluzione in questo momento? Chiudere il prima possibile un accordo politico e lavorare moltissimo sulla Costituente, cosa che invece è stata lasciato abbastanza a margine. I messaggi che arrivano dagli Stati Uniti sono del tipo "caro Bashar, tu hai vinto la guerra ma noi i soldi per la ricostruzione non te li diamo". Chi ne paga in questo momento sono quei milioni di siriani che in questo momento stanno morendo di fame».

 

 

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