George Floyd. Tutti in ginocchio
04 giugno 2020
Polizia, pastori protestanti, preti, esponenti istituzionali e famiglie si sono inginocchiati ieri a Farfield per Floyd e per ricordare che è giunta l’ora di un cambiamento
Diceva Langston Hughes, grande poeta afroamericano: «Che ne è di un sogno differito? Si inacidisce come un acino d’uva al sole, o s’infetta come una piaga e marcisce?... Forse si affloscia come un grosso peso. Oppure esplode?».
Ieri, nella cittadina di Farfield (comune di 57.813 abitanti degli Stati Uniti d’America situato nella Contea omonima nello Stato del Connecticut. La città ospita la sede centrale della multinazionale più grande del mondo: la General Electric), molti leader religiosi si sono riuniti per inginocchiarsi e per pregare insieme agli agenti della polizia locale e per esprimere solidarietà a George Floyd e alle persone morte tra le mani delle forze dell’ordine.
Il capitano della polizia di Fairfield, Brad Collins, si è inginocchiato tra la folla accorsa al raduno del Laurel Creek Park.
L’evento era promosso dalle chiese (di diverse denominazioni) di Fairfield, insieme al Dipartimento di polizia e alle autorità della città con lo scopo di promuovere l’unità e la pace e onorare la memoria di George Floyd.
A darne notizia e stato il sito The Reporter. «Il pacifico raduno – informa The Reporter – è stato importante perché ha saputo riunire persone di diversa estrazione sociale e religione; un modo per ascoltare le preoccupazioni e le frustrazioni di tante persone che devono subire abusi e ingiustizie, solo per il colore della loro pelle. Una "veglia" per chiedere un cambiamento».
Numerose le chiese protestanti della città presenti, e insieme a loro, il sindaco Harry Price, l’ufficiale di polizia Walt Tibbet con tanti altri colleghi della polizia. E poi, comuni cittadini, personale scolastico e studenti e intere famiglie.
«Siamo qui – ha affermato il pastore David Isom, della chiesa di Santo Stefano – perché desideriamo che tutti comprendano che ogni vita e preziosa, unica, irripetibile. Che la vita di ogni persona conta tanto quanto quella di una altra… anche se di un colore diverso», e lo ha detto guardando negli occhi le tante persone accalcatesi e inginocchiatesi per seguire l’incontro.
Isom ha proseguito, «oggi siamo qui per esprimere solidarietà ai nostri fratelli e sorelle di tutto il mondo che vogliono un cambiamento; che chiedono con forza si ponga fine all’uccisione di persone, tanto più se questi omicidi avvengono solo per motivazioni raziali».
Claybon Lea Jr., il pastore della chiesa battista del Monte Calvario, prendendo la parola, ha però posto l’accento sul numero di forze dell’ordine presenti al raduno solidale.
«Mi piacerebbe che tutti prendessero nota di questo importante fatto, le forze dell’ordine qui presenti sono davvero tante» e ha proseguito «oggi non sono vestite in tenuta antisommossa o con l’equipaggiamento Swat; e questo perché sono parte della nostra piccola comunità di Farfield e anche loro, con impegno, stanno cercando di lanciare un segnale importante di unità e di solidarietà. Oggi non possiamo generalizzare».
Una questione atavica «quella razziale».
In un bell’articolo pubblicato il 9 luglio 2016 lo storico Alessandro Portelli su Il manifesto il giorno dopo la strage di Dallas (sparatoria avvenuta tra il 7 e l’8 luglio messa in atto da Micah Xavier Johnson con l’obiettivo di colpire alcuni agenti di polizia in seguito alle uccisioni di cittadini afroamericani da parte delle forze dell’ordine americane), scriveva citando il poeta Hughes: «In questa America che ti permette di ricercare e inseguire la felicità ma ti impedisce di raggiungerla, il fuggiasco sogno afroamericano dell’uguaglianza diventa sempre più differito e frustrante quando sembra più vicino.
Malcolm X diceva: “the ballot or the bullet”, la scheda o il fucile. Gli afroamericani la scheda l’hanno usata, e hanno eletto Barak Obama.
Il sogno sembrava a portata di mano, abbiamo letto editoriali sulla fine del razzismo, e invece è stato solo un nuovo inizio: l’abisso che per quattro secoli ha separato bianchi e neri, il vuoto su cui si strutturava l’America, è parso per un attimo ridursi, ma avvicinamento non ha creato armonia, bensì attrito, e l’attrito sanguina.
Sanguina – proseguiva Portelli – anche perché la vittoria afroamericana con la scheda ha subito additato a un’opinione pubblica spaventata e a istituzioni intrise di razzismo la strada del fucile. E le pallottole hanno continuato a volare, come fanno da secoli di schiavitù, linciaggi, segregazione, razzismo. Il sogno sembrava a portata di mano, ed è sfuggito di nuovo».
Che cosa è allora «questa promessa sempre rinnovata e sempre mancata?» – si chiedeva Portelli e proseguiva, «È una menzogna, che inacidisce e marcisce il sogno e produce disincanto, sfiducia, crisi della partecipazione e della democrazia? O una maledizione, che produce rabbia e paura e infine, in gesti come quello di ieri a Dallas, esplode? Direi – concludeva Portelli – che l’uno è il segno dell’altro: l’esplosione minoritaria e disperata è lo specchio della delusione e della rabbia impotente della maggioranza in una democrazia che ha fallito il suo compito».