Il Myanmar sotto processo per genocidio
22 novembre 2019
La leader del Paese, Aung San Suu Kyi, parteciperà alle udienze alla Corte internazionale di giustizia per difendere le azioni che portarono all’esodo dei Rohingya verso il Bangladesh
Nell’estate del 2017, la minoranza musulmana dei Rohingya visse un nuovo capitolo della discriminazione e della persecuzione subita da decenni in Myanmar, l’ex Birmania, in cui vive da oltre mille anni. Le operazioni di rastrellamento della popolazione musulmana nella regione del Rakhine, condotte nell’estate del 2017 a fini di rappresaglia contro gli attacchi dell’organizzazione indipendentista Arsa (Arakan Rohingya Salvation Army) ai danni delle forze armate nazionali, portarono a enormi conseguenze in termini politici e umanitari. Secondo le stime raccolte da Unhcr, a un mese dallo scoppio delle violenze le vittime civili erano oltre 6.000, uccise spesso con esecuzioni sommarie e stupri su vasta scala, come dimostrato poi dal rinvenimento di numerose fosse comuni e di interi villaggi dati alle fiamme allo scopo di cancellare qualsiasi evidenza dei crimini perpetrati dalle forze nazionali.
Chi non venne ucciso, decise a quel punto di fuggire: oltre 600.000 Rohingya, addirittura 740.000 secondo alcune stime, trovarono rifugio appena al di là della frontiera, in Bangladesh, uno tra i Paesi più poveri e sovrappopolati al mondo, in cui i campi profughi allestiti dal governo andarono presto in crisi. Nell’estate del 2017 la comunità internazionale si indignò per qualcosa che già si conosceva, su scala certamente minore, ma non prese provvedimenti. Un anno dopo, un’indagine condotta dalle Nazioni Unite documentò in modo ampio e preciso le atrocità commesse dalle truppe birmane e le dinamiche da pogrom di cui si resero protagonisti i cittadini della maggioranza buddhista, carichi di odio etnico e nazionalista. Quel lavoro venne portato avanti in condizioni estremamente difficili a causa dell’aperta opposizione dei vertici politici di Naypyidaw, che hanno sempre negato la dimensione etnica dell’azione militare nei confronti di una popolazione oggi diventata apolide e privata di qualsiasi diritto, non ultimo quello alla casa e al ritorno.
Ma si trattò di un genocidio oppure no? Toccherà alla Corte internazionale di giustizia (ICJ) stabilirlo, tra il 10 e il 12 dicembre all’Aja, rispondendo a una denuncia presentata alla più alta corte delle Nazioni Unite dal governo del Gambia, che in 46 pagine sostiene che il Myanmar ha commesso omicidi di massa, stupri e distruzioni di comunità nello stato di Rakhine. «I soldati birmani – si legge nella denuncia – spararono sistematicamente, uccisero, fecero sparire a forza, violentarono singolarmente e in gruppo, stuprarono, arrestarono, picchiarono e torturarono civili Rohingya e bruciarono e distrussero le loro case, le moschee, le scuole, i negozi e anche i Corani».
La domanda del Gambia si basa sul fatto che, secondo le regole dell'ICJ, gli Stati membri possono intentare azioni contro altri Stati membri in merito a violazioni del diritto internazionale, in questo caso la convenzione del 1948, di cui sia il Gambia sia il Myanmar sono firmatari, sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio. È la prima volta che il tribunale dell’Aja indaga da solo sul una richiesta di genocidio senza fare affidamento sul lavoro di tribunali specializzati, come invece avvenne nel caso forse più noto, quello del tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia.
«L’obiettivo – ha dichiarato il ministro della Giustizia del Gambia Abubacarr Tambadou – è far sì che il Myanmar renda conto della sua azione contro il proprio popolo: i rohingya», aggiungendo poi che «è una vergogna per la nostra generazione non fare nulla mentre il genocidio si svolge proprio sotto i nostri occhi». Il fatto che la denuncia sia stata curata da Tambadou non deve sorprendere: il ministro aveva lavorato come procuratore del tribunale istituito per provare i responsabili del genocidio del 1994 in Ruanda e aveva recentemente visitato i rifugiati Rohingya a Cox’s Bazar, il principale campo profughi del Bangladesh. Per le centinaia di migliaia di rifugiati in Bangladesh, il pericolo non è terminato con l’esodo, perché il loro diritto al ritorno non è garantito e le condizioni di vita nei campi sono insostenibili, ma l’allarme è grande anche per i 600.000 Rohingya che rimangono in Myanmar, considerati in pericolo di ulteriori atti di genocidio.
A difendere l’operato dell’esercito e della polizia di fronte alla Corte sarà Aung San Suu Kyi, un tempo icona della democrazia e oggi schierata dalla parte della maggioranza.
Dopo una storia vicenda politica e giudiziaria contro il regime militare birmano, che le era valso anche il Premio Nobel per la Pace nel 1991, quella che era considerata una paladina dei diritti umani è al governo dal 2015 e viene ritenuta connivente con gli abusi inflitti ai Rohingya. Inoltre, in questi anni San Suu Kyi ha spesso minimizzato i crimini dell’esercito, contribuendo in prima persona a ostacolare l’ingresso di osservatori internazionali, accusandoli di dire il falso per infangare il Myanmar. Addirittura, il premio Nobel sostiene che non ci siano prove sufficienti per dire definitivamente cosa è successo nel Rakhine, e che quando filtrato in Occidente sia soltanto una “montagna di disinformazione” messa in piedi dai “terroristi” Rohingya.
La sua inazione ha portato a chiederle di essere spogliata del premio Nobel per la pace, mentre numerosi altri premi e onorificenze che le sono stati assegnati sono già stati ritirati.
Mentre all’Aja si apre il processo, tra Bangladesh e Myanmar non ci sono progressi significativi: l’accordo bilaterale di rimpatrio dei profughi siglato dai due governi all’inizio del 2018 è rimasto inattuato, con meno di duemila ritorni, mentre il censimento degli sfollati oltre la frontiera fra i due stati ha ampiamente superato il milione di individui, la metà dei quali minori.
A metà novembre un altro organo internazionale, la Corte penale internazionale (Cpi), ha autorizzato un’indagine completa sui crimini commessi contro i Rohingya. Tuttavia, anche in questo caso i margini d’azione sono molto limitati. Innanzitutto il Myanmar non è un membro della Cpi, e la mancanza di competenza aveva finora impedito alla corte di agire, ma la natura transfrontaliera delle presunte violazioni permette di lavorare almeno sul lato del Bangladesh. Tuttavia, la Cpi non può imporre mandati di arresto o sentenze, ma può chiedere agli Stati membri di trattenere le persone messe sotto accusa in attesa di una sentenza.
È legittimo chiedersi a che cosa possa servire il processo dell’Aja, perché la ICJ non ha strumenti per far rispettare nessuna delle sue sentenze, ma si pensa che andare contro le decisioni del tribunale potrebbe danneggiare ulteriormente la reputazione internazionale del Myanmar, che ha cattivi rapporti anche con la Cina e che rischia di essere sempre ancora più isolato.