Il pastore di frontiera
02 agosto 2019
Intervista a Randy J. Mayer, pastore della Good Shepherd United Church of Christ, da oltre vent’anni nelle terre di confine tra Usa e Messico
Sta spopolando sul web l’immagine di una installazione artistica, un’altalena che connette i due lati del muro tra Messico e Stati Uniti. Si chiama Teeter-Totter Wall ed è stata realizzata in New Mexico dall’architetto Ronald Rael e dall’esperta di design Virginia San Fratello. È proprio lì, nei pressi – contro – quel muro che da oltre vent’anni si svolgono il lavoro, la vita e l’impegno di Randy J. Mayer, pastore della Good Shepherd United Church of Christ, che parteciperà il prossimo 26 agosto a un incontro al Sinodo delle chiese valdesi e metodiste a Torre Pellice. Lo abbiamo intervistato pochi giorni fa, a partire dai tempi “caldi” delle migrazioni, dal confine statunitense a quello che avviene quotidianamente nel Mediterraneo.
– L’accordo tra Usa e Messico per limitare il flusso di migranti sta “funzionando”?
«Le diverse politiche messe in atto dall’amministrazione Trump per fermare il flusso migratorio hanno creato più sofferenza e caos che altro e in realtà hanno persino fatto crescere l’immigrazione. Il “Restate in Messico” (programma che prevede che coloro che chiedono asilo negli Usa attendano in Messico che le loro domande vengano esaminate, ndr), dopo essere stato bloccato dai tribunali per un po’ di tempo, ora è in vigore da circa tre mesi. Mentre se ne parla come se stesse accadendo lungo tutto il confine, viene in realtà applicato solo in due o tre posti precisi, come programma-pilota. Non c’è, a esempio, in luoghi vicino al confine come quello dove siamo noi, a Nogales (al confine con l’Arizona). L’altro programma attualmente in vigore impone ai richiedenti asilo di fare domanda di protezione, appunto, in un “Paese terzo sicuro”, se ne attraversano uno prima dell’arrivo negli Stati Uniti. Quindi, in pratica, il Guatemala è costretto a servire come paese terzo per i richiedenti asilo dall’America centrale, e per riportare chi arriva dall’America centrale in Guatemala se cercano asilo al confine americano. Non è chiaro se questa politica sia ancora in atto. Inizialmente la Costituzione del Guatemala non lo avrebbe permesso, ma l’amministrazione Trump sta esercitando un’enorme pressione. Dal punto di vista giuridico non regge, in quanto, secondo il diritto internazionale, il Guatemala non è un paese sicuro: molti dei richiedenti asilo provengono da lì».
– Quali sono i problemi più gravi che state affrontando in questo periodo alla frontiera?
«Il caos e la crudeltà che le politiche di Trump causano e che colpiscono le famiglie di richiedenti asilo. Ci sono oltre 2000 persone nei rifugi di Nogales, in Messico, in attesa del loro colloquio di credible Fear alla frontiera (in italiano “fondato timore”, determina la necessità di protezione, a causa delle condizioni di insicurezza del paese di provenienza, ndr), il primo passo nel loro processo. Il governo degli Stati Uniti ha rallentato questo iter, a volte solo una o due famiglie al giorno. E ogni giorno arrivano più migranti: così l’elenco e la fila di persone al confine diventano sempre più lunghi. I rifugi sono pieni e insalubri, si diffondono varicella, cimici, scabbia. Fa molto caldo, oltre 37 gradi. Molte famiglie vivono per strada, dormono nei cimiteri di notte. E i “cartelli” stanno depredando i più vulnerabili. I richiedenti asilo sono così disperati che pagano i “cartelli”, a volte anche 500 dollari a persona per essere portati nel deserto, dove si formano gruppi da 50 a 300 persone. Il loro intento è attraversare gli Stati Uniti ed essere fermati dalle pattuglie di frontiera (Border Patrol), dove chiederanno asilo. Tutto ciò è molto pericoloso perché sono persone già molto deboli e rischiano di camminare a lungo. Quello che potrebbe e dovrebbe essere un iter efficiente e ordinato, diventa un sistema caotico e crudele.
L’altro problema, creato da questo collo di bottiglia al confine per i richiedenti asilo, è la necessità di rifugi lungo il confine negli Stati Uniti. Le pattuglie di frontiera e lo United States Immigration and Customs Enforcement, l’agenzia federale statunitense responsabile del controllo della sicurezza delle frontiere e dell’immigrazione, ndr) per mesi hanno semplicemente lasciato le famiglie nelle città e alle stazioni degli autobus lungo il confine. Persone senza cibo, denaro né alcuna capacità di cavarsela. È stato un disastro umanitario. Quindi chiese e organizzazioni no profit lungo il confine hanno dovuto creare rapidamente un sistema di rifugi. A Tucson durante l’inverno c’erano circa 200-300 “nuovi” richiedenti asilo ogni giorno, che venivano abbandonati al loro destino. Ora ci sono 5 o 6 rifugi nelle chiese. Un rifugio gestito da Catholic Social Services è ospitato in un monastero abbandonato, ha ospitato fino a 300 persone e impiega 150 volontari».
– In Italia le Ong che salvano i migranti nel Mediterraneo continuano a essere criminalizzate: che cosa ne pensate?
«Ho seguito i casi di criminalizzazione degli operatori umanitari nel Mediterraneo. Penso ovviamente che sia sbagliato, ma purtroppo era prevedibile che anche l’Italia e gli altri Paesi seguissero l’esempio dei 15 anni di criminalizzazione degli operatori umanitari che il governo degli Stati Uniti ha perseguito. I governi lavorano attivamente insieme e condividono politiche e approcci sul tema della sicurezza. Si tengono ogni anno conferenze sulla sicurezza in cui aziende e multinazionali vendono le loro ultime tecnologie e tecniche per militarizzare e controllare i confini e fermare l’immigrazione.
Negli Stati Uniti, in questi anni, abbiamo assistito, dal punto di vista legale, a una costante criminalizzazione delle persone migranti in quanto tali: trasformare queste persone in criminali, per il solo fatto di aver attraversato il confine. Allo stesso tempo, sono state criminalizzate le persone che li aiutano, che dà loro l’acqua quando si trovano in mezzo al deserto. Infine, nel corso delle ultime quattro amministrazioni, sono stati investiti sempre più fondi per militarizzare i confini, con muri, infrastrutture tecnologiche, agenti, droni. Ma questa strategia si è rivelata inefficace, perché non ha fatto calare così sensibilmente il flusso di migranti. Il tentativo di criminalizzare le Ong e gli aiuti umanitari sta dunque avvenendo negli Stati Uniti, in Italia e in altri paesi. Negli ultimi 15 anni, il governo degli Stati Uniti ha provato a fermare anche il nostro lavoro. In realtà si sono svolti 38 o 39 processi contro il movimento umanitario e il governo degli Stati Uniti ha vinto solo in due o tre casi. Il governo degli Stati Uniti si è infiltrato attivamente nelle chiese e nelle Ong per spiarle e poi condannarle per aver svolto attività umanitarie. Pertanto, siamo fortemente contrari alla criminalizzazione delle Ong o degli operatori umanitari. Combatteremo il governo degli Stati Uniti in tribunale su tutti i fronti. E pensiamo di poter vincere».
– Dopo così tanti anni lungo la frontiera, lungo una delle frontiere dove muoiono più persone, come fate a non farvi scoraggiare, a trovare la forza di continuare il vostro impegno? Vi vedete sempre lì, al lavoro sulla frontiera?
«Mia moglie Norma e io abbiamo vissuto per 21 anni nelle terre di confine. Ci sono belle persone, cultura, cibo e diversità. Amiamo chiamarla casa nostra. A volte i pastori si spostano da una chiesa all’altra e non mettono mai radici, che possono portare maggiore stabilità e consentono lo sviluppo di progetti e programmi più ampi. In questo momento, voglio restare alla Good Shepherd per i prossimi 5-10 anni. Abbiamo ancora molto da fare nella nostra comunità e mi piacerebbe vedere alcuni cambiamenti positivi lungo il confine e questo è possibile. Bisogna lavorare sodo e servono persone che abbiano sviluppato fiducia e impegno nella propria comunità. Quindi sì, mi vedo restare qui, nella lotta in prima linea al confine, perché credo che possiamo aiutare a ravvivare le terre di confine e renderle il posto migliore negli Stati Uniti». (Nev/Riforma)