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Mondiali in Qatar, lo scandalo dei lavoratori morti e sfruttati

Le chiese facciano sentire la loro voce di fronte alla moderna schiavitù

Se a protestare fossero le stelle planetarie del pallone, da Ronaldo a Messi e via cantando, invece di Riku Riski, pressoché sconosciuto calciatore che vanta comunque 28 presenze nella nazionale finlandese, la scandalosa questione dei lavoratori impegnati nella costruzione degli stadi che ospiteranno la coppa del mondo 2022 in Qatar avrebbe certamente un’eco differente. Ma gli enormi interessi in gioco devono evidentemente suggerire altre strategie a chi gestisce l’immagine, e il portafoglio, degli idoli di centinaia di milioni di persone. La responsabilità reale è però certamente di chi tiene il timone di comando dell’evento, dalla Fifa in giù. Racconti e inchieste di tangenti milionarie spiegano bene quali interessi viziano oramai le assegnazioni dell’organizzazione di simili eventi.

Eppure le organizzazioni per i diritti umani da anni urlano al mondo la vergogna in corso, il dramma di centinaia di migliaia di nepalesi, indiani, filippini, ridotti in schiavitù: 70 ore di lavoro a settimana con paghe da fame, in condizioni ambientali drammatiche. Feriti a migliaia, e morti, tanti morti. Gli stadi non sono che una fetta di una torta ricchissima come non mai: a corredo ci sono infrastrutture, strade, aeroporti, collegamenti, alberghi e quant’altro. Tale il potere del denaro che per la prima volta il mondiale si terrà in inverno, con stravolgimento quindi di calendari di campionati nazionali e competizioni internazionali.

A gennaio di quest’anno Riski viene convocato per un amichevole da giocarsi proprio in Qatar. Ma il giocatore aveva avuto modo di leggere il rapporto di Amnesty International del settembre 2018, una denuncia senza appello delle modalità di gestione dell’intero comparto delle costruzioni legate alla World Cup 2022, con un accento particolare posto sul Kafala System, sorta di tutoraggio del datore di lavoro che ha come conseguenza pratica  il sequestro del passaporto del lavoratore, il quale in sostanza diventa prigioniero e non può decidere di lasciare il paese (la pratica è divenuta nota in un primo tempo per le decine di migliaia di donne che dai paesi asiatici finiscono a fare le domestiche nelle case dei ricchi nei paesi arabi). Il Qatar a fine 2016 ha ufficialmente abolito il sistema Kafala, ma vari scoop giornalistici hanno rivelato che la prassi continua. Sono circa 1,2 milioni i lavoratori stranieri in Qatar e sarebbero almeno 1400 le vittime legate ai cantieri della coppa del mondo del 2022, fra i soli cittadini nepalesi. Un’ ecatombe svelata a più riprese in questi anni da alcuni coraggiosi mezzi di informazione: il britannico The Guardian nel 2013, al momento della morte di 44 lavoratori nepalesi in un trimestre, e la televisione tedesca Wdr a maggio 2019, con tanto di video, perché il giornalista Benjamin Best è entrato con una telecamera nascosta nei cantieri in cui si trovano a lavorare questi moderni schiavi, che da mesi non ricevono il già misero stipendio, tanto da non esser in grado di acquistare cibo e prodotti per la salute. Il Comitato organizzatore della Coppa del mondo esclude che ci siano state le morti descritte dai lavoratori nel cantiere e afferma di non esser a conoscenza degli abusi in corso. Ma Human Right Watch e altre Ong, e ora anche le ambasciate nepalesi e filippine rilanciano e affermano che le riforme del sistema del lavoro che il Qatar ha avviato nel 2014 sono un passo ma non sufficiente senza attuare reali controlli. 

Per la cronaca Riku Riski, che non è Ronaldo, che non è Messi, ha ricevuto grandi pacche sulle spalle e attestati di stima da allenatori e federazione finlandese, ma non è stato più convocato per le successive partite della nazionale.

Le chiese sono state molto timide o distratte a riguardo in questi anni. Si ricorda un intervento dello scorso anno di papa Bergoglio durante un incontro con i vertici della Fifa e poco altro.

Certo esse non soffrono pressioni da parte di sponsor che premono per farle tacere. E allora non lo facciano. 

 

Immagine da Amnesty International

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