Pena di morte, un 2018 con meno esecuzioni
16 aprile 2019
La nuova edizione del rapporto sulla pena di morte curato da Amnesty International racconta che si ricorre sempre di meno alla pena capitale, ma la strada verso l’abolizione globale è ancora lunga
Il 2018 è stato l’anno con il numero più basso di esecuzioni capitali negli ultimi dieci anni, con una diminuzione globale di quasi un terzo rispetto all’anno precedente. A dirlo è il nuovo rapporto su condanne a morte ed esecuzioni nel 2018, curato e pubblicato da Amnesty International.
Un po’ di numeri, prima di tutto: sono state almeno 690 le esecuzioni registrate globalmente, con una netta diminuzione rispetto al 2017, quando furono almeno 993. Ma perché si specifica sempre “almeno”? La scelta di Amnesty International è quella di raccogliere informazioni da più fonti, dai dati ufficiali alle notizie provenienti dagli stessi condannati a morte, dai loro familiari e rappresentanti legali, fino ai rapporti di altre organizzazioni della società civile e resoconti dei mezzi di comunicazione, ma riportando nei documenti pubblici solo i dati di cui c’è conferma. Siccome molti paesi non rendono pubbliche le informazioni sul ricorso alla pena capitale, i dati sono valori minimi, mentre quelli reali sono probabilmente più alti. Fatta questa premessa, va sottolineato che il numero delle esecuzioni documentate è calato del 30% e che questa diminuzione è particolarmente marcata nei Paesi che ricorrevano in modo più frequente alla pena di morte.
I progressi maggiori, racconta Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, si sono registrati «proprio nei Paesi più resistenti alla tendenza abolizionista». Tra questi spicca l’Iran, che nel 2017 era stato responsabile di almeno 507 esecuzioni, ma che nel 2018 ha ridotto l’uso della pena capitale ad almeno 253 casi. Qui, spiega Noury, «le modifiche alla legge sulla detenzione, sullo spaccio di droga, hanno comportato una riduzione della metà delle esecuzioni». Allo stesso modo, l’Iraq e il Pakistan hanno ridotto fortemente le esecuzioni rispetto al 2017: da almeno 125 ad almeno 52 in Iraq e da almeno 60 ad almeno 14 in Pakistan. «Questo è un segnale importante, perché vuol dire che persino i più fanatici sostenitori della pena capitale si rendono conto che alla fine non serve minimamente allo scopo che si sono prefissi».
Anche il numero di Paesi che hanno eseguito sentenze capitali si è ridotto e lo scorso 17 dicembre, nel corso dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, 121 stati hanno votato a favore di una moratoria globale sulla pena di morte, a cui si sono opposti soltanto 35 stati. Si tratta del più alto livello di consenso mai raggiunto da questa iniziativa, che era stata ratificata nel 2017 con 104 voti a favore, anche se la geografia del supporto alla moratoria non è affatto omogenea: per la prima volta, infatti, Dominica, Libia, Malesia e Pakistan hanno cambiato il loro voto e hanno sostenuto la risoluzione, mentre Antigua e Barbuda, Guyana e Sudan del Sud hanno modificato il voto dall’astensione all’opposizione. Gambia, Guinea Equatoriale, Mauritius, Niger e Rwanda hanno invece deciso di ritornare a votare a favore della risoluzione, dopo aver compiuto scelte differenti nel 2016. Sono invece cinque i Paesi che hanno ribaltato il voto dato nel 2016: Nauru ha votato contro, avendo in precedenza votato a favore, Bahrain e Zimbabwe sono passati all’opposizione dopo essersi astenuti. La Repubblica del Congo e la Guinea hanno poi cambiato il loro voto favorevole, questa volta astenendosi.
Alla tendenza globalmente positiva fanno da contraltare alcuni scenari molto negativi. Tra questi, senza dubbio, l'Egitto. «È un Paese – spiega il portavoce di Amnesty Italia – che preoccupa tantissimo, non solo per la pena di morte. Per quanto riguarda le esecuzioni capitali c’è stata una recrudescenza non solo per quelle eseguite ma anche per le condanne, molte delle quali al termine di processi iniqui, in cui le confessioni sono estorte con la tortura. Si calcola che da quando al Sisi ha preso il potere nel 2013 le condanne a morte emesse siano state circa 2.000, di queste ogni anno a decine vengono eseguite. Se pensiamo che quest’anno siamo già a 15 credo che il dato del 2019 sarà persino peggiore di quello del 2018».
Ritornando alle tendenze globali, è importante notare come nel 2018 in 174 Paesi membri delle Nazioni Unite non siano state eseguite condanne a morte, tutte concentrate in diciannove Stati. Tuttavia, stride la presenza degli Stati Uniti in questo ristretto insieme, unico insieme alla Bielorussia tra i 57 Paesi membri dell’Osce, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, unico Paese membro tra i 35 dell’Organizzazione degli stati americani, unico, insieme al Giappone, tra i Paesi del G7/G8. Eppure, qualcosa si muove anche al di là dell’Atlantico: «alla fine dello scorso anno lo Stato di Washington ha dichiarato incostituzionale la pena capitale e ora nel New Hampshire, l’ultimo Stato del cosiddetto New England che manteneva ancora la pena di morte, si sta avviando ad abolirla. Entrambi i rami del Parlamento hanno votato per l’abolizione con una maggioranza tale che il governatore non può porre il veto».
Una caratteristica che accomuna alcuni tra i Paesi che ancora prevedono la pena di morte è il silenzio: in Bielorussia, così come in Vietnam, i registri delle esecuzioni sono classificati come segreto di Stato, mentre in Corea del Nord e Laos le restrizioni governative impediscono di avere informazioni. In Siria, invece, il conflitto in corso dal 2011 rende impossibile accedere ai dati e confermarli. Un discorso a parte lo merita la Cina, seconda potenza economica del mondo e probabilmente maggiore esecutore del pianeta: dal 2009 Amnesty International ha smesso di pubblicare le stime sull’uso della pena di morte in questo Paese, precisando che i dati che è in grado di confermare sono significativamente inferiori a quelli reali a causa delle restrizioni di accesso alle informazioni. «Noi – racconta Noury – continuiamo ad accusare le autorità di Pechino di mancanza di trasparenza, ci dicono che le esecuzioni sono in calo, che aumentano le garanzie contro i possibili errori giudiziari in fase di revisione, ma se considerano ancora i dati come un segreto di Stato non possiamo misurare i miglioramenti, ed è un peccato che noi non possiamo confermati questi possibili passi avanti. Resta il fatto che quei coraggiosissimi attivisti che cercano di compilare elenchi di condanne a morte sono in grande pericolo. Noi continuiamo a non metterli in ulteriore pericolo, ma continuiamo a sfidare il governo di Pechino a rendere pubblici i dati».
Ma che cosa aspettarci dal 2019? Secondo Riccardo Noury «ci saranno sicuramente Paesi che aboliranno la pena di morte, ormai succede così ogni anno, però ci sono Paesi che vogliono reintrodurla, penso allo Sri Lanka, per reati di droga. Nonostante l’esempio dato dall’Iran, che era il principale Paese che utilizzava la pena di morte per reati di droga, dallo Sri Lanka vogliono reintrodurla dopo 40 anni e più. Ci sono altri Paesi che stanno discutendo proposte di legge per la reintroduzione. Anche in alcuni di questi, come Turchia, Israele e Russia, probabilmente non accadrà mai, è comunque un segnale preoccupante il fatto che ci sia qualcuno che pensa ancora di applicare la legge del taglione».