La rotta balcanica continua a essere aperta
25 marzo 2019
Con la riduzione dei flussi del Mediterraneo centrale, le persone che passano dalla Turchia alla Grecia e poi lungo i Balcani sono tornate a crescere. Intervista a Silvia Maraone (Caritas-Ipsia)
Nel marzo del 2016 la Commissione europea annunciava che, in seguito alla firma dell’accordo tra la Turchia e i governi dell’Unione europea, «i flussi irregolari di migranti lungo la rotta dei Balcani occidentali sta terminando» e che «la rotta è chiusa». Pochi mesi prima, durante l’estate 2015, più di 850.000 persone, soprattutto siriani in fuga dall’assedio di Aleppo e dalla cancellazione delle loro città, passarono dalla Turchia alla Grecia e poi via via verso nord-ovest, verso la Germania e la Svezia, per presentare la propria richiesta di protezione internazionale.
Dal 18 marzo 2016 la “rotta balcanica” è diventata sempre meno battuta e sempre meno raccontata. Ma anche se gli accordi tra la Turchia e i governi europei ha segnato la loro scomparsa dalle cronache, le persone che la attraversano o che vi sono rimaste bloccate sono ancora lì a testimoniare quanto la via migratoria non si sia mai veramente chiusa. A distanza di tre anni, racconta Silvia Maraone, coordinatrice dei progetti lungo la Balkan Route per Caritas e Ipsia, «i numeri che vediamo degli sbarchi in Grecia, con conseguente movimento lungo la rotta terrestre, sono numeri che ci dicono che c’è sempre un’attività sul territorio».
Osservando i dati forniti da Unhcr, la parziale chiusura della rotta del Mediterraneo centrale avvenuta con gli accordi tra Italia e Libia del 2017 ha portato a un nuovo spostamento dei movimenti migratori lungo due rotte laterali: a fronte di 23.370 persone sbarcate in Italia nel 2018, la rotta spagnola ha visto crescere i passaggi dai 14.500 del 2016 agli oltre 65.000 dello scorso anno, mentre dalla Grecia sono transitate oltre 50.000 persone, che hanno significato, racconta Silvia Maraone, «24.000 passaggi in Bosnia-Erzegovina nel 2018. Di tutto si può parlare tranne che di una rotta disattivata».
La percezione, vista da chi segue la rotta del Mediterraneo centrale, è che la rotta orientale sia meno pericolosa. È vero?
«No. Essendo una rotta di terra cambiano solamente i motivi della morte, ma i numeri ci parlano di persone che tutti i giorni, attraversando i fiumi o le montagne, mettono a rischio la propria vita, ed effettivamente ci sono dei tributi in termini di vite che vengono perse lungo questo tragitto. Sono stati almeno 12 i morti dall’inizio dell’anno solamente nell’attraversamento tra la Bosnia e la Slovenia, quindi della rotta verso il confine italiano, che di fatto poi è la meta alla quale le persone puntano per poi muoversi da lì lungo i territori Schengen e andare ancora nuovamente verso l’Austria, la Germania o la Svezia dove poi cercheranno di fare domanda d’asilo, però tutti i giorni le persone attraversano illegalmente a loro rischio i confini. Le cause principali sono l’annegamento nei fiumi e il rischio di essere investiti dalle auto, mentre alcune persone saltano sui tetti dei treni, per cui muoiono per le scosse elettriche che ricevono. Tutti i giorni le persone rischiano e in questi mesi vediamo persone che non ce la fanno».
A questo va aggiunto un tema, che è oggetto di una serie di reportche ci dicono che la polizia di frontiera attua dei respingimenti con annesse violenze che sarebbero del tutto evitabili. Che cosa si sa di queste pratiche?
«Le violenze che la polizia croata attua nei confronti dei migranti non sono una cosa nuova: la fonte più autorevole rispetto ai diritti umani, Amnesty International,ha pubblicatolo scorso 13 marzo un nuovo rapporto sulle violenze che vengono perpetrate ai danni dei migranti al confine tra la Croazia e la Bosnia, per cui parliamo di respingimenti violenti che vengono attuati dalla polizia croata, che è un territorio ricordiamo dell’Unione europea ai danni delle persone che anche arrivando in Croazia chiedono asilo. Quindi vengono prima di tutto negati loro i diritti di poter fare domanda d’asilo. Le procedure che vengono in atto sono violentissime, per cui quasi tutti i migranti raccontano se non di pestaggi sistematici o di essere stipati all’interno di camionette per ore o in stanze piccolissime e sovraffollate, raccontano che i poliziotti tendono a spaccare i loro cellulari o a rapinarli. A volte è successo anche che le persone nei mesi invernali venissero spogliate delle scarpe e delle calze e dovessero tornare a piedi in Bosnia-Erzegovina. Tra l’altro la polizia croata spesso accompagna i migranti lungo le vie del respingimento entrando anche in territorio bosniaco procedendo a un’ulteriore violazione».
Oltre ai report occasionali, esiste un monitoraggio regolare di queste violazioni?
«Sì, è possibile seguire quello che succede a livello di violenza lungo la rotta balcanica attraverso il lavoro di alcune organizzazioni: una tra queste è sicuramente Nonamekitchen, che ha un report mensile delle violazioni sistematiche dei diritti lungo la rotta balcanica, poi c’è un sito che ha fatto un atto di denuncia molto forte ma che ha ottenuto poca attenzione, che è Border Violence Monitoring. Loro hanno ricevuto del materiale video dei respingimenti violenti lungo la rotta in Croazia al confine con la Bosnia e l’hanno diffuso attraverso un report molto dettagliato che racconta quello che succede lungo questa rotta».
«Continua a essere il corridoio privilegiato per le persone che vengono dal bacino del Medio oriente e dell’Asia. In Grecia continua a rimanere alto il numero dei siriani, che arrivano in Grecia e decidono di fermarsi lì sperando nella possibilità di un ricollocamento nei Paesi europei, pur essendo illegale secondo quello che prevede l’accordo turco-europeo del marzo 2016. Lungo la Serbia e la Bosnia abbiamo in maggioranza afghani, iracheni, iraniani, pakistani, e ancora un basso numero di siriani che decidono di procedere comunque lungo la rotta di terra e non fermarsi in Grecia. Stiamo parlando di territori che hanno passaporti tra i più deboli al mondo».
La rotta balcanica è la rappresentazione del fallimento dell’Europa nel garantire il diritto di presentare la propria domanda di asilo in modo sicuro. Lei crede, lavorando su questo territorio, che ci si debba aspettare qualche cambiamento nel breve periodo?
«Sappiamo che la Turchia ha sempre in mano uno strumento molto pericoloso, perché sul suo territorio ci sono circa quattro milioni di profughi, provenienti per l’appunto dalla Siria ma anche dai Paesi limitrofi, che rimangono lì in larga misura solamente per questo accordo turco-europeo che è stato siglato. Il problema è che l’Europa non sta adempiendo pienamente a quelli che sono gli accordi veri e propri, per cui al di là del riconoscimento economico che serve per gestire i campi profughi e le persone su quel territorio, non sono stati fatti i passi in avanti diplomatici che la Turchia aveva richiesto».
Che cosa potrebbe succedere?
«La preoccupazione che abbiamo è sempre quella, cioè che prima o poi la Turchia decida di fare com’era successo nel 2015, di smettere di monitorare le proprie frontiere e rilasciare nuovamente una massa di persone che hanno tutto il diritto di andare a cercare una vita migliore, ma un conto è gestire numeri piccoli come quelli dello scorso anno, 50.000 passaggi dalla Grecia, un conto è doverci trovare nuovamente un passaggio come quello del 2015 di quasi 850.000 persone lungo solamente la rotta balcanica, che ha dato il via al fallimento totale della diplomazia internazionale, del sistema Schengen. Questo è anche l’anno delle elezioni europee, per cui è molto probabile che lo spostamento dei voti sul centrodestra sarà molto forte, quindi il tema migrazioni e quello ad esso collegato rimane un tema forte, importante, e sul quale non siamo del tutto preparati».