Ginevra, Stato laico o no?
23 gennaio 2019
Fra pochi giorni il referendum per abrogare o mantenere la legge sulla laicità approvata lo scorso anno: ma il dibattito continua
I cittadini ginevrini saranno presto chiamati, con il referendum del 10 febbraio, a pronunciarsi sulla legge sulla laicità dello Stato, adottata alla fine di marzo dello scorso anno dal Gran Consiglio del cantone di Ginevra, il primo ad approvare una norma su questo tema, norma che però ha da subito suscitato polemiche (ne avevamo parlato qui).
Le accese discussioni che avevano accompagnato l’approvazione della legge quasi un anno fa non si sono però placate, e continuano a coinvolgere da un lato i proponenti del referendum e dall’altro le principali Chiese cristiane, gli uni convinti dell’inutilità della legge, le altre persuase che sia sì «imperfetta, ma necessaria», come scrive Joël Burri (già caporedattore dell’agenzia Protestinfo, responsabile editoriale del sito internet del giornale protestante svizzero Réformés, che da aprile diventerà caporedattore del mensile Réformés). Di questo parere le tre principali denominazioni ginevrine, la Chiesa cattolica romana, la Chiesa protestante di Ginevra e la Chiesa cattolica cristiana, sebbene con qualche riserva.
Lo scontro nasce dalle diverse interpretazioni della legge, che secondo i detrattori è liberticida e tende all’omologazione e all’annullamento delle differenze culturali, mentre i sostenitori, o coloro che per lo meno vogliono “salvarne” gli aspetti positivi, sottolineano il riconoscimento e l’uguaglianza di trattamento per tutte le comunità religiose (più di 370, nel cantone di Ginevra), il che comporta un dialogo più stretto fra queste e lo Stato, l’estensione della cappellania e dell’insegnamento delle diverse religioni nelle scuole.
Indubbiamente, uno dei punti più critici è l’articolo 3, sul divieto, da parte dei dipendenti statali che lavorano a contatto con il pubblico, dei magistrati e dei politici, di indossare simboli o indumenti che esprimano la loro appartenenza religiosa.
Secondo molti, questo tipo di divieto «vuole regolare in modo autoritario dei problemi che in realtà non si pongono», attaccando libertà individuali che dovrebbero essere inviolabili.
Oltretutto, sarebbe sbagliato puntare tutta la questione sull’aspetto religioso: «uno Stato laico dovrebbe difendere le minacce all’ordine pubblico indipendentemente dai motivi che li causano», e la percezione della diversità culturale come minaccia dà origine a un modello di integrazione che significa in realtà assimilazione. Perché questo è in fondo il problema: non le differenze religiose in sé, ma quelle portate dalle persone immigrate.
Da parte protestante però l’idea è di non «gettare via il bambino con l’acqua sporca»: è importante che lo Stato si interessi alla questione religiosa, «perché questa fa parte delle nostre vite», rileva Emmanuel Fuchs, presidente della Chiesa protestante di Ginevra, secondo il quale la legge tenta di promuovere un progetto di comunità comune, moderna, piuttosto che la convivenza fra individualità che si accontentano di coesistere. Questo è il punto fondamentale, sottolinea l’articolo di Burri, in cui si scontrano (in modo quasi paradossale) due opposte interpretazioni della legge.