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In Yemen la tregua è già in bilico

Siglata giovedì 13 dicembre in Svezia, l’intesa per l’interruzione delle ostilità militari e accompagnare il Paese verso una soluzione politica sembra già vacillare. È stato tutto inutile?

Giovedì 13 dicembre una stretta di mano tra il negoziatore dei ribelli Houthi e il ministro degli Esteri del governo yemenita riconosciuto dalla comunità internazionale sembrava poter aprire una nuova pagina per lo Yemen, ma il percorso è tutto in salita.

Le trattative condotte in Svezia sotto la supervisione dell’inviato delle Nazioni Unite, Martin Griffiths, hanno visto per la prima volta le due delegazioni partecipare a trattative dirette, anziché a negoziati separati, e hanno condotto a un’intesa con cui si prevede prima di tutto di stabilizzare la situazione nelle due principali aree urbane ancora contese, ovvero la città portuale di Hodeida, decisiva per l’ingresso nel Paese di merci e aiuti umanitari, e Ta’izz, importante snodo dello Yemen meridionale. In particolare, a Hodeida è subito entrato in vigore un cessate il fuoco a cui, entro tre settimane, dovrà seguire il ritiro di tutte le forze armate, sia governative sia ribelli, dal centro urbano e dal porto. A quel punto la gestione dell’area dovrà passare a un organismo presieduto dalle Nazioni Unite, capace di rappresentare entrambe le parti in conflitto, a cui spetteranno le responsabilità sull’accesso agli aiuti umanitari e sulla redistribuzione dei proventi del porto. L’accordo prevede inoltre lo scambio di poco meno di 16.000 prigionieri di guerra, circa 7.500 oggi in mano ai ribelli Houthi, sostenuti dall’Iran, e 8.500 detenuti dal governo yemenita, appoggiato da una coalizione di Paesi guidata dall’Arabia Saudita. Tuttavia, poco dopo l’accordo il ministro degli Esteri yemenita Khaled al-Yamani ha sottolineato come il ritiro delle truppe regolari dal porto controllato dagli Houthi rimanga soltanto un’ipotesi operativa, attuabile solo se saranno i ribelli a compiere il primo passo indietro.

Come già dichiarato dalle parti nei primi giorni dell’incontro, lo scopo delle trattative in Svezia non era quello di trovare subito una soluzione politica al conflitto, ma almeno di costruire un clima di fiducia reciproca da cui ripartire per affrontare alcuni nodi critici che stanno alla base delle rivendicazioni dei ribelli Houthi, che già nel 2014 chiedevano maggiore equità nell’assetto amministrativo e nella distribuzione delle risorse del Paese.

Sono infatti molti gli aspetti che sono rimasti ai margini o addirittura fuori dal tavolo: dalla possibilità di riaprire l’aeroporto della capitale Sana’a all’urgenza di una nuova politica umanitaria nei confronti dei civili, senza i quali è impossibile avviare un vero e proprio dialogo fra le parti mirato alla soluzione politica del conflitto. Antonio Guterres, il segretario generale delle Nazioni Unite, ha affermato che su tutti questi aspetti a fine gennaio verrà avviato un nuovo round di colloqui.

La guerra nello Yemen è cominciata nel marzo del 2015 con l’avvio delle operazioni militari della coalizione a guida saudita, ma il primo capitolo del conflitto va cercato nel colpo di Stato messo in atto dagli Houthi alcuni mesi prima. I ribelli chiedevano alcuni riconoscimenti, come l’inserimento di 20.000 appartenenti alla minoranza sciita all’inrterno delle forze armate governative, l’assegnazione di alcuni ministeri e l’inclusione in alcune regioni, come Azal, Hajja e al-Jaw.

A distanza di poco meno di quattro anni dall’intervento armato della coalizione a guida saudita, che utilizza anche armi prodotte da aziende europee, una parte dei territori, come il governatorato di Aden, sono tornati sotto il controllo del presidente Hadi, mentre la capitale Sana’a e le principali aree petrolifere rimangono in mano ai ribelli Houthi, che sostenevano l’ex presidente Saleh, prima di ucciderlo perché aveva cercato una mediazione con i sauditi. Da allora, il dialogo tra le parti è stato pressoché inesistente.

Proprio per questo, l’accordo siglato in Svezia rappresenta un evidente passo in avanti, ma gli equilibri potrebbero essere troppo fragili per reggere.

I primi segnali di questa debolezza sono infatti arrivati quasi subito: domenica 16 dicembre l’emittente Al Arabiya, di proprietà degli Emirati Arabi Uniti, riferiva che le milizie Houthi stavano saccheggiando il porto di Hodeida, rubando attrezzature e documenti commerciali e finanziari prima di ritirarsi dalla città. Sempre secondo l’emittente emiratina, nelle ultime settimane i ribelli avrebbero saccheggiato tutte le istituzioni governative, mimetizzandosi con le divide dell’esercito che fa capo al presidente Hadi. Tuttavia, Al Arabiya è espressione di uno tra i Paesi più attivi nel conflitto, quindi notizie come queste richiedono verifiche.

Intanto, nella notte tra sabato e domenica Hodeida è stata teatro di raid aerei e combattimenti sul terreno, che secondo fonti vicine al governo yemenita avrebbero portato all’uccisione di 51 persone, mentre 7 ribelli sarebbero stati catturati in un villaggio a sud delle città mentre cercavano di attaccare postazioni filogovernative. Di fronte a un accordo così debole e inefficace, l’inviato delle Nazioni Unite per lo Yemen, Martin Griffiths, ha sollecitato le parti a rispettare l’accordo di tregua.

Il mancato rispetto del cessate il fuoco, infatti, potrebbe compromettere la struttura dell’intesa, inevitabilmente delicata, e portare le parti sempre più lontane, fino al punto di decidere di disertare i nuovi negoziati di fine gennaio.

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