«Vidi quel volto e mi parve familiare»
18 luglio 2018
Un ricordo delle lotte contro l’apartheid nel centenario della nascita di Nelson Mandela
«Il giorno dopo, con la giacca a vento e il baschetto verde, stavo in piedi davanti a un muro. Papà mi scattava una foto e io feci un’espressione simile a quella di una tigre che ruggisce o a una foca che sbadiglia. Dietro di me, il vero soggetto della foto: due manifesti formato gigante. Nel primo si vedeva una donna con due grandi ali che diceva: “Diritti per tutti”. Il secondo mostrava una faccia nera che occupava tutto il manifesto. Stavamo camminando per quelle strade larghissime di Parigi fatte apposta per far passare i carri armati. Vidi quel volto e mi parve familiare. Sotto, c’era scritto: LIBERTE’ POUR NELSON MANDELA!. Ecco chi era! Uno di quelli della mostra. Uno dei capi di tutta la faccenda. Uno del paese senza nome. Vederlo così, con la barba e gli occhi tristi, mi faceva dispiacere. Mio papà provò a staccare il manifesto per portarselo via».
Così Leonora ricordava (in “La forma incerta dei sogni”, Piemme editore) il suo primo giorno nella capitale francese, a sette anni. Nella sua personale interpretazione della Marianne (la “donna con le ali”) e dei boulevards (le avevo spiegato la demolizione del tessuto urbano originario nella Parigi dell’800 per impedire la costruzione di barricate e permettere all’artiglieria di manovrare), aveva prontamente riconosciuto il volto del prigioniero di cui in famiglia si discuteva spesso e per la cui liberazione si raccoglievano firme. Era il 1986, probabilmente l’anno più drammatico per il Sudafrica dove la popolazione nera si stava ribellando contro il sistema dell’apartheid.
Il 19 febbraio ad Alexandra (Johannesburg) la polizia sudafricana si rese responsabile dell’ennesimo eccidio uccidendo una ventina di manifestanti. A tre giorni di distanza gli scontri proseguivano nella città assediata, circondata dall’esercito e isolata dal resto del paese.
Il governo di Pretoria stava cercando in ogni modo di impedire il dilagare delle proteste, non solo attraverso la repressione, ma anche innescando con provocazioni “da manuale” conflitti interni ai diversi gruppi politici per scatenare faide e regolamenti di conti. Con l’intento di alimentare nell’opinione pubblica l’idea che i neri non fossero in grado di autogovernarsi e legittimare quindi l’intervento della polizia definita “imparziale”.
L’anno prima, il 1985, era stato attraversato da un grandioso ciclo di lotte contro l’apparato burocratico-militare statale. Il 21 marzo a Langa (Uitenhage-Port Elisabeth) la polizia celebrava a modo suo l’anniversario della strage di Sharpeville del 1960: aprendo il fuoco con fucili da caccia grossa su un corteo funebre (composto prevalentemente da donne e bambini) e provocando una ventina di morti. Altrettanti neri erano stati ammazzati in circostanze analoghe nella settimana precedente. A fine aprile 1985 le vittime della repressione dall’inizio dell’anno erano oltre centocinquanta. In maggio il “Comitato di sostegno ai parenti dei detenuti” (DPSC) informava che «nelle ultime settimane 21 persone sono morte nelle mani della polizia in seguito a interrogatorio, cinque dall’inizio di aprile». Negli ultimi venti anni i morti accertati nelle stazioni di polizia risultavano essere 63 (24 nel solo 1984), la maggior parte per ferite alla testa. Il DPSC denunciava poi la scoperta di una fossa comune di almeno cinquanta cadaveri sepolti clandestinamente dalla polizia in marzo nella township di Zwide.
La mobilitazione degli abitanti dei ghetti neri si fondava sulla tattica di aggregarsi, attaccare e disperdersi, contemporaneamente in più punti del paese. Ferma restando la disparità incolmabile tra chi lanciava pietre e chi sparava. Altrettanto efficaci le innumerevoli azioni di lotta nonviolenta (dal boicottaggio dei negozi di proprietà dei bianchi alla partecipazione di massa ai funerali dei militanti caduti), determinanti per la ricomposizione della comunità oppressa.
A venir messo in discussione ormai non era soltanto il monopolio del potere da parte dei bianchi, ma anche il ruolo delle multinazionali occidentali (o meglio, delle loro succursali) che realizzavano enormi profitti grazie allo sfruttamento intensivo della manodopera indigena. Tra le altre, a futura memoria: Coca Cola, IBM, Generals Motors, Alfa Romeo, Union Carbide, Olivetti, IRI, Ford, Siemens, Wolkswagen, Bosch, Renault, Leyland, Goodyear, Toyota, Nissan, Ciba, Nestlé, Spie-Batignelles, Pechiney, Rio Tinto Zinc, Barklays, Gec, BP, Shell, Mobil, Control Data Mark. Caltex ecc. Nel settembre del 1985, con l’assalto congiunto di neri e meticci ai quartieri residenziali della ricca borghesia bianca, si era giunti a livelli di scontro fino a qual momento impensabili.
Contemporaneamente il movimento sviluppava una capillare azione contro le “quinte colonne” dell’apartheid nei quartieri neri: collaborazionisti, funzionari locali, “quisling”, spie e infiltrati. In questa drammatica spirale di lotte, repressione e nuove lotte e nonostante le stragi, gli squadroni della morte, le torture, i licenziamenti di massa e le conseguenti deportazioni (a fine aprile più di 17mila minatori per uno “sciopero illegale” nelle miniere della Anglo-American e della Anglo-Waal), le masse popolari sudafricane sembravano avviate autonomamente verso l’insurrezione. E’ significativo che soltanto alla fine del giugno 1985, dopo mesi di scontri e rivolte, l’ANC lanciasse un suo appello a prendere le armi contro il governo segregazionista.
Questo nuovo ciclo di lotte (determinante dopo le sconfitte degli anni sessanta e settanta -v. Soweto- e di cui si possono individuare le origini nei tumulti scoppiati quasi contemporaneamente in otto città-satellite nere il 3 settembre 1984) aveva conosciuto naturalmente anche i suoi fallimenti. Era clamorosamente naufragata la manifestazione del 28 agosto 1985 al carcere di Pollsmoor, impedita con centinaia di soldati, poliziotti, cani, blindati, fucili e fruste. Organizzata e preannunciata con clamore da alcuni leader religiosi (immediatamente arrestati) come un decisivo confronto tra governo e movimento antiapartheid (Boesak aveva dichiarato che avrebbero “rivoltato dalla testa il paese”), nella sua spettacolarità aveva assunto forse troppa importanza, esponendo i manifestanti alla repressione più totale e indiscriminata. Per tutto l’85 sarà un crescendo di lutti. In agosto, dopo tre giorni di scontri, tra i neri si contano oltre trenta morti. E il massacro della popolazione nera in rivolta proseguirà inesorabilmente anche negli anni successivi.
Contro cosa si erano ribellati i neri del Sudafrica, oltre che contro la discriminazione razziale? Un lungo elenco di buone ragioni: lo sfruttamento bestiale nelle miniere, nelle fabbriche, nelle fattorie-prigioni; l’alto livello di mortalità infantile (ufficialmente, 15% nei ghetti neri metropolitani, 25% nelle homelands, ma in realtà molto superiori, secondo l’ANC, arrivando al 50%); i lager per prigionieri politici come l’isola di Robben; le campagne di sterminio fuori dei confini contro i campi profughi (un migliaio di vittime a Kassinga nel 1977 e altri attacchi in Botswana e Leshoto tra il 1984 e il 1985 ); le condizioni di vita subumane per donne, vecchi, bambini, disoccupati e per tutti coloro che restavano esclusi dal mercato della forza lavoro; gli omicidi bianchi nelle miniere (nel 1985 a Secunda con decine di vittime), spesso per trascuratezza e cinismo da parte dei capisquadra bianchi; sempre nelle miniere la media di un morto ogni venti ore; la morte precoce dei minatori che estraevano l’uranio in Namibia, occupata dalla RSA che vi aveva introdotto l’apartheid; le torture, le uccisioni in carcere, le esecuzioni, le “sparizioni” di oppositori (un caso fra tanti, quello dei tre militanti del “Port-Elisabeth Black Civic Organisation” nel marzo 1985 e di altri esponenti del PEBCO, Sipho Hashe, Qaquvuli, Godolozi e Champion Galela) e gli squadroni della morte statali e parastatali (nel solo mese di giugno 1985 l’uccisione di quattro dirigenti dell’UDF a Cradok e di otto esponenti del COSAS); l’arresto e talvolta anche la tortura di bambini (come gli 800 dai 6 ai 13 anni a Soweto nell’agosto 1985) per non essere andati a scuola o per aver violato le norme dello stato di emergenza; i più di cento bambini morti di fame ogni giorno in quello che è uno dei paesi più ricchi del mondo. Oltre, naturalmente, al sacrificio di migliaia di “dannati della terra” caduti nelle lotte degli ultimi anni, da Sharpeville a Soweto.
Ora, appare evidente che in Sudafrica, nonostante la fine dell’apartheid, molte questioni sono rimaste drammaticamente aperte. Va ricordato che ancora negli anni ottanta, il regime di Botha aveva finanziato e favorito la nascita di una borghesia clientelare nera (permettendo a qualche imprenditore di costituire società al di fuori dei bantustan). Attualmente anche molti esponenti dell’ANC si sono trasferiti nelle aree di lusso, con ville e campi da golf. Con il risultato che mentre sono diminuite le disparità tra bianchi e neri, sono vertiginosamente aumentate quelle all’interno della comunità nera. E naturalmente le multinazionali (in particolare quelle anglo-statunitensi) hanno potuto conservare il loro potere quasi inalterato. Ma sarebbe comunque ingiusto attribuire troppe responsabilità a Mandela. Un uomo che aveva dignitosamente fatto la sua parte contro l’ingiustizia istituzionalizzata. Sicuramente molti tra i suoi seguaci e successori – penso a Zuma – non si sono mostrati all’altezza e il cammino da percorrere è ancora lungo (a cominciare da quella ridistribuzione delle terre che era nel programma originario dell’ANC), ma questo sopravvissuto a 27 anni di prigione (e, moralmente, anche alla “sfilata degli ipocriti” intervenuti al suo funerale) se ne era andato con il suo carisma di combattente della libertà praticamente intatto. Alle future generazioni il compito di completarne l’opera.
A chi scrive, la scadenza di questo anniversario (i cent’anni dalla nascita di Mandela) ha riportato alla mente i nomi delle innumerevoli vittime del regime dell’apartheid. Alcuni sono comunque passati alla Storia: Steve Biko (militante della SASO, morto sotto tortura), Victoria Mxenge (avvocato dell’UDF, uccisa da una squadra della morte), Joe Gquabi (oppositore, assassinato dai servizi segreti), Ruth First e Janette Curtis (entrambe con un pacco-bomba dei servizi segreti di Pretoria), Benjamin Moloise (poeta, impiccato), Neil Aggett e Andreis Radtsela (sindacalisti, morti sotto tortura), Dulcie Septembre (esponente dell’ANC, assassinata in Francia dai servizi segreti)…). Ma per un gran numero di assassinati il rischio è di essere definitivamente dimenticate. Chi si ricorda ancora di Saoul Mkhize, Samson Maseako, Taflhedo Korotsoane, Elias Lengoasa, Sonny Boy Mokoena, Mvulane, Bhekie…?
Per ognuno, una piccola storia di sofferenze e umiliazioni ancora da raccontare.
E un commiato affettuoso vada anche alle tante persone conosciute all’epoca del maggiore impegno per “strappare le radici dell’ingiustizia” e che nel frattempo ci hanno lasciato: Benny Nato, Febe Cavazzuti Rossi, Alberto Tridente, Edgardo Pellegrini, Beyers Naudé…
Un esempio per chi li ha conosciuti e per chi non ha avuto questo onore.
P.S. Quanto a Leonora, anni dopo, nel 2004, partì per Sharpeville (città-martire dove nel 1960 la polizia aveva aperto il fuoco con le armi automatiche contro una folla inerme che protestava contro il sistema dei lasciapassare, almeno una settantina di vittime) per incontrare di persona alcuni sopravvissuti alla prigione, alla tortura e alla condanna a morte sospesa soltanto il giorno prima dell’esecuzione (I “Sei di Sharpeville”: Duma Joshua Khumalo, Theresa Machabane Ramashamole, Oupa Moses Diniso, Mojalefa Reginald Sefatsa, Francis Manentsa Mokhesi e Reid Malebo Mokoena) perché “una vocina leggera mi disse che forse una generazione non basta. Le battaglie sono più lunghe e forse funzionano con il sistema della staffetta. Ci si passa il testimone”. Ma questa è già un’altra storia…