Armenia, comincia la transizione?
26 aprile 2018
Finita l’esperienza di governo di Sargsyan, rimane molto da fare in un Paese in cui il potere resta concentrato in pochissime mani. Il commento del giornalista Simone Zoppellaro
Dopo dieci giorni di manifestazioni pacifiche e dieci anni di potere, lunedì 23 aprile sono arrivate le dimissioni del primo ministro armeno Serzh Sargsyan, accusato di aver trasformato il Paese in uno Stato autoritario. Il premier, che era stato presidente negli ultimi dieci anni, aveva promosso un referendum per trasformare il Paese da repubblica presidenziale a parlamentare e si era fatto nominare primo ministro, in modo da aggirare il limite di due mandati presidenziali e mantenere intatta la propria posizione al vertice dell’Armenia. Domenica 22 il primo ministro aveva inoltre fatto arrestare tre importanti leader dell’opposizione, tra cui il capo delle proteste Nikol Pashinyan, liberato poi il giorno dopo, con l’accusa di aver commesso “atti socialmente pericolosi”.
Le proteste sono state pacifiche e organizzate prevalentemente dal basso e rappresentano un fenomeno raro di manifestazioni di massa di successo nelle repubbliche dello spazio post-sovietico, al punto che le dimissioni di Sargsyan sono state accolte con entusiasmo non solo tra le strade di Erevan, ma anche dalle comunità armene in diaspora in tutto il mondo. Ora, però, secondo i manifestanti è necessario che si vada verso elezioni realmente democratiche, che portino a una trasformazione della politica armena, percepita come corrotta e controllata da poche persone, realmente al potere da decenni. Il vicepremier Karen Karapetyan, che ha assunto l’incarico di primo ministro ad interim, ha dichiarato che è pronto a dichiarare lo stato di emergenza, se necessario, ma ora è sotto pressione per mantenere la promessa di elezioni anticipate. In una nota, il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha invitato «tutti gli attori a continuare ad esercitare moderazione e dare priorità al dialogo».
Simone Zoppellaro, giornalista esperto di Armenia, autore del libro Armenia oggi, Drammi e sfide di una nazione vivente, racconta che «queste proteste sono state decisive e senza precedenti».
In che senso?
«L’Armenia è stata segnata negli ultimi anni a cadenza annuale da una serie di proteste importanti di cui si è anche parlato a volte in Europa, ma nulla di simile si era mai visto da un punto di vista numerico: le stime dell’opposizioni parlano di manifestazioni da 100.000 persone in un Paese da tre milioni di abitanti».
Quali sono le prospettive ora?
«Bisogna stare attenti a non abbandonarsi ai trionfalismi in questo momento. Se è vero che Sargsyan, al vertice per quasi dieci anni come presidente e ora come primo ministro con le stesse funzioni e gli stessi poteri, si è dimesso, una transizione armena è ancora agli albori, ammesso che avvenga davvero. La struttura del potere armeno è nelle mani di pochi oligarchi ed è tutt’ora nelle mani del partito repubblicano di cui Sargsyan è solo un rappresentante. Insomma, la piazza ha avuto un grande peso, ma dobbiamo stare ancora attenti».
L’Armenia guidata da Sargsyan era saldamente alleata della Russia: quanto sta accadendo in questi giorni potrebbe mettere in discussione questo rapporto, magari avvicinando l’Armenia ai Paesi occidentali?
«Non credo, ci si abbandona molto spesso a queste visioni geopolitiche perché non si conosce la realtà dall’interno. In un comunicato il Cremlino afferma che questa è una questione interna armena e al momento senza dubbio lo è, non ci sono state caratterizzazioni che facciano pensare a un cambiamento geopolitico dell’Armenia, che sarebbe assai problematico per la presenza di basi russe. Non tanto per una questione di sicurezza russa, quanto per il punto fondamentale dell’appoggio militare della Russia nei confronti dell’Armenia per la questione del Nagorno–Karabakh, così come per la questione mai risolta con la Turchia relativa al genocidio e alle tensioni del presente. Insomma, la questione di un passaggio geopolitico dalla Russia all’Occidente non è assolutamente sul tavolo e non è neanche una richiesta dell’opposizione, che parla di questioni interne, sociali ed economiche».
Quale dovrà essere il punto di partenza per l’agenda del nuovo primo ministro?
«Il cambiamento dev’essere socioeconomico e politico insieme. L’Armenia è comunque un Paese relativamente democratico comparato ad altri vicini, ad altre realtà cosiddette post-sovietiche: ci sono stati altri cambiamenti di potere, quello avvenuto grazie alla piazza negli ultimi giorni non è l’unico in questi 27 anni di indipendenza dall’Urss. Ci sono state diverse figure al potere come presidenti, ci sono stati diversi partiti al potere. Il punto è più complesso: l’Armenia è un piccolo Stato con due confini chiusi: da un lato con la Turchia e da un lato con l’Azerbaijan. Inoltre è un Paese la cui struttura sociale e soprattutto economica è nelle mani di pochissime persone, gli oligarchi, che hanno in mano tutte le leve dell’economia e di conseguenza anche tutte le leve della politica. Non è semplice immaginare un cambiamento in questi termini: anche qualora la politica subisse un cambiamento drastico negli assetti di potere, e non è ancora accaduto, questo dovrebbe produrre però una serie di cambiamenti a catena che finiscano di strutturare diversamente la società armena, perché se non esiste classe media e se esiste solo una piccola classe di persone che hanno in mano tutto è davvero difficile immaginare che l’Armenia di oggi possa cambiare».
Martedì 24 si sono svolte le celebrazioni per i 103 anni dal genocidio armeno compiuto dalle truppe dell’Impero ottomano. In una situazione politica così volatile questa celebrazione è stata un elemento di unione o di divisione?
«Sicuramente è stato un elemento di unione ed è stato anche un elemento determinante, indirettamente, per la caduta del primo ministro Sargsyan. Non a caso, le dimissioni sono arrivate il giorno prima, questo anche per una ragione di ordine pubblico, perché qualora queste manifestazioni, a cui ho preso parte diverse volte, che coinvolgono a loro volta decine di migliaia di persone, si fossero incrociate con la protesta, anche da un punto di vista numerico per la piccola Armenia sarebbe stata una cosa davvero esplosiva. Immaginare di avere degli scontri, magari anche dei morti, nel giorno delle commemorazioni per il genocidio sarebbe stato davvero un trauma che avrebbe potuto aprire pagine inquietanti da guerra civile. Le dimissioni del premier avvenute il giorno prima sono senza dubbio riferibili anche a questo, considerando che parte dei militari proprio il giorno prima delle commemorazioni del genocidio avevano deciso di raggiungere la protesta. La manifestazione per commemorare il genocidio è stata una pagina di unione per l’Armenia, lo è sempre stata, è un punto fondamentale dell’identità armena contemporanea nel Paese e nella diaspora, ma avrebbe potuto rischiare di essere invece una pagina decisamente preoccupante. Per fortuna è andata bene, è stata una scelta di responsabilità da parte del potere, che ha decisamente le sue colpe ma che in questo frangente ha evitato lo scontro aperto ed è stato saggio, per così dire».