L’arresto di Puigdemont tra forza e debolezza
26 marzo 2018
Fermato in Germania domenica 25 marzo, l’ex presidente catalano potrebbe essere estradato nei prossimi giorni. Proteste in tutta la regione per una prova di forza di Madrid
Domenica 25 marzo l’ex presidente della Catalogna, Carles Puigdemont, è stato arrestato in Germania mentre attraversava in auto il Paese per ritornare in Belgio dopo una conferenza in Finlandia. Puigdemont, che ha vissuto proprio in Belgio gli ultimi cinque mesi, è ricercato in Spagna con l'accusa di sedizione e ribellione ed è stato arrestato dalla polizia tedesca che ha agito in base a un mandato di cattura europeo, rilanciato venerdì scorso dopo l'uscita del leader catalano dal Belgio. Dopo la dichiarazione unilaterale di indipendenza dello scorso ottobre, infatti, molti leader politici indipendentisti catalani sono stati arrestati e incarcerati, mentre numerosi sono stati coloro che hanno scelto di lasciare il Paese per evitare l’arresto e per cercare di dare all’autodeterminazione catalana un respiro europeo. La notizia dell'arresto di Puigdemont, vincitore di fatto delle elezioni in Catalogna di dicembre, senza però una netta maggioranza, è stata accolta con manifestazioni e proteste a Barcellona, dove oltre 50.000 persone sono scese in piazza marciando verso gli uffici della Commissione europea e del consolato tedesco chiedendo libertà per quelli che vengono ritenuti prigionieri politici.
Negli scontri tra dimostranti e polizia, successivi alle cariche della forze dell’ordine, almeno 50 persone sono rimaste ferite in maniera lieve e tre sono state arrestate. Puigdemont ora è detenuto nel penitenziario di Neumünster, nello Schleswig-Holstein, ed entro 60 giorni il tribunale tedesco si dovrà pronunciare sulla sua estradizione.
L’arresto di Puigdemont conferma quanto i rapporti tra Madrid e Barcellona siano ai minimi storici e quanto si sia nel pieno di una stagione davvero difficile per la politica catalana. Infatti, dopo la dichiarazione unilaterale d’indipendenza successiva al referendum del 1 ottobre 2017 e al successivo commissariamento dell’intera politica catalana, si era tornati al voto lo scorso 21 dicembre. I movimenti indipendentisti non avevano ottenuto la maggioranza assoluta dei voti, ma avevano mantenuto almeno una maggioranza relativa nel Parlamento regionale, ottenendo quindi l’incarico di formare un governo. «Il problema – spiega Steven Forti, docente di storia contemporanea presso l’Universitat Autònoma de Barcelona – è che l’indipendentismo, pur vendendosi come molto unito, in realtà è profondamente diviso al suo interno tra diverse formazioni e progetti politici, soprattutto dopo quello che abbiamo visto nell’autunno scorso e la stretta da parte delle istituzioni spagnole, da parte del governo di Madrid, attraverso la magistratura». Queste divisioni sono chiare anche per il fatto che gli indipendentisti catalani non sono ancora riusciti a formare un governo: ci hanno provato alla fine giovedì scorso presentando come candidato Jordi Turull, che il giorno successivo è stato mandato in carcere dal magistrato Pablo Llarena, quindi l’indipendentismo è in una fase sicuramente molto complicata, in una fase in cui è ancora molto forte, rappresenta poco meno del 50% della società catalana ma non supera la barriera del 50%. «dopo i fatti di ottobre – prosegue Forti – la politica catalana è divisa tra un settore più pragmatico che vorrebbe cercare di formare il governo giocando all’interno della legalità costituzionale spagnola, quindi abbandonando la via unilaterale, e un settore rappresentato da Puigdemont che invece vuole continuare sulla via dello scontro con il governo di Madrid per riattivare le mobilitazioni sociali». Fino alla scorsa settimana l’impressione è che il settore pragmatico potesse avere la meglio, ma oggi tutto è tornato in discussione «Bisognerà capire – spiega Steven Forti – come reagisce la politica e poi come reagisce anche la società civile. Le manifestazioni di ieri ci potrebbero dare qualche indicazione in questo senso, però vediamo se queste manifestazioni si mantengono e soprattutto quali sono gli slogan che hanno queste manifestazioni e che ricaduta hanno poi sulla politica».
Tuttavia, se Barcellona vive una stagione di divisioni e globalmente debole, va sottolineato che anche a Madrid non si respira un clima di unione, al punto che il pugno duro applicato dal governo Rajoy attraverso la giustizia potrebbe essere un segno di debolezza. «L’utilizzo della forza e la tendenza a delegare ai giudici e tribunali la risoluzione di un problema che è essenzialmente politico – afferma Forti – dimostra una debolezza del premier Rajoy, che continua su questa linea politicamente suicida del Partido Popular del non voler risolvere con il dialogo politico una questione che non può essere risolta solo dai tribunali». Anche in questo caso, il problema va in parte fatto risalire all’esito delle ultime elezioni e ai risultati del Partido Popular: Rajoy, infatti, sta governando in minoranza grazie all’appoggio esterno di Ciudadanos, il partito di centrodestra che i pochi anni è passato da novità a potenziale vincitore di eventuali elezioni. A proposito della questione catalana Ciudadanos ha tenuto sin da subito una posizione più a destra rispetto a quella del Partido Popular, ribadendo una linea durissima di applicazione del commissariamento della regione e di rinvigorimento del nazionalismo spagnolo. «Al di là – aggiunge Forti – della sua personale maniera di affrontare i problemi politici, che in genere consiste nel non affrontarli, Rajoy ha le mani legate politicamente. Credo sia una dinamica abbastanza comune a livello europeo che si può riassumere nella crisi delle élite dirigenti e politiche a livello internazionale. Mancano degli statisti capaci di “prendere il toro per le corna” e risolvere politicamente delle crisi che stanno portando delle conseguenze gravissime per la società spagnola e per le istituzioni democratiche spagnole, oltre alla società catalana, che sta vivendo una frattura molto forte sulla questione dell’indipendenza».
Ma su quali piani si sviluppano queste fratture? A giudicare dalla partecipazione alle manifestazioni di protesta e alla distribuzione del voto, non sembrerebbe del tutto inopportuno ipotizzare una questione generazionale: tra gli studenti universitari sembra esserci un desiderio di indipendenza decisamente più forte rispetto, per esempio, a quello di chi ha più di 60 anni, una fascia d’età in cui prevale il desiderio di unità. Eppure, non è questa la principale tensione dinamica. «Diversi studi compiuti a livello universitario – chiarisce Steven Forti – dimostrano come la questione dell’indipendenza non sia una questione che divide la società a livello generazionale. Per esempio dipende anche da dove gli studi vengono compiuti, se nell’area metropolitana di Barcellona, dove ci sono molte persone che hanno origini familiari dal sud o dal centro della Spagna o nell’interno della regione catalana, dove invece l’indipendentismo come forma di nazionalismo è sempre stato più forte. La frattura più profonda riguarda le due diverse Catalogne: quella urbana, ossia la grande area metropolitana di Barcellona, e quella dell’interno, soprattutto nelle province di Girona e Lleida».