La conoscenza come patrimonio di tutto il Paese
13 marzo 2018
Il rapporto Istat sui riflessi della cultura nella vita sociale dell'Italia
La conoscenza è importante non solo per la vita delle persone ma anche per la società nel suo complesso. Se si vuole avere uno sguardo rivolto al futuro è bene ricordarsene ogni tanto e per la prima volta l’Istat, l’Istituto italiano di statistica, propone un rapporto che presenta una lettura integrata della creazione, trasmissione e uso della conoscenza nella vita sociale, dunque non solo nell’economia. L’analisi è davvero ampia e riguarda diversi settori che vanno dall’economia all’istruzione fino alla fruizione di beni e servizi culturali. Il confronto con altri Paesi europei colloca l’Italia indietro, ma questa non è una novità. Quello che è interessante notare sono alcuni fenomeni emergenti da cui si possono desumere alcune indicazioni per un’inversione di tendenza, per un cambiamento radicale nel modo in cui l’istruzione, l’apprendimento e la formazione degli adulti sono considerate.
Le analisi dettagliate riguardano la spesa in ricerca e sviluppo che è inferiore rispetto ad altri paesi europei, a eccezione della Spagna e, cosa forse più preoccupante, è concentrata solo in alcune regioni del Nord. Solo pochi settori, in cui il nostro Paese è tradizionalmente forte, investono in ricerca e sviluppo: tessile-abbigliamento e industria alimentare. L’Italia inoltre presenta un ritardo storico nei livelli d’istruzione rispetto ad altri paesi europei: nel 2016 il 60% degli abitanti (25-64 anni) ha conseguito almeno un titolo di studio secondario e questo dato è per fortuna in aumento rispetto a dieci anni fa. Ma la media europea è 16,8 % in più. Anche in questo campo si rileva un divario enorme tra il Nord e il Sud.
Per quanto riguarda il sistema universitario le cose non vanno tanto meglio: innanzitutto è difficile accedervi e mantenersi negli studi universitari, anche se occorre rilevare che al Sud le lauree triennali sono aumentate ma sono sempre meno che al Nord. Spesso poi dal Sud si emigra al Nord o all’estero per completare il percorso di studi, impoverendo tutti i territori di partenza.
Il rapporto indica anche che studiare può avere un impatto sui livelli occupazionali e in particolare sulla qualità dell’impiego. Insomma, non è vero ciò che da più parti negli anni scorsi si è sentito dire, e cioè che studiare non serve a nulla. Non solo perché la formazione è importante nella vita relazionale e sociale ma anche perché essa può consentire un migliore livello di occupazione: gli occupati di alta qualificazione sono aumentati negli ultimi anni, anche se in Italia rappresentano il 36,3% mentre in Europa sono il 41,4% e sono impiegati in settori tecnico-scientifici, nei servizi d’informazione, nella comunicazione e nell’istruzione. In altri settori quali il commercio, turismo, trasporti e costruzioni vi è stata invece una diminuzione della qualità dell’occupazione. In altri termini, il livello di istruzione influisce sulla partecipazione al mercato del lavoro: nel 2016 il tasso di occupazione delle persone tra 25 e 64 anni con istruzione universitaria era circa l’80% contro il 51% delle persone con un titolo secondario inferiore.
E per quanto riguarda i consumi culturali? La visita a musei e monumenti ha registrato un aumento, soprattutto al Sud, mentre le biblioteche vengono utilizzate in modo polifunzionale, cioè non solo per prendere in prestito libri e riviste o consultare e leggere, ma anche per corsi e seminari. Tra i laureati, la pratica di attività culturali è maggiore ma in generale circa il 60% della popolazione (25-64 anni) dedica del tempo ad attività artistiche e ricreative che talvolta si fanno in gruppo.
Anche l’uso delle nuove tecnologie è entrato nel rapporto sulla conoscenza: va notato che in Italia solo il 50% del personale in aziende con almeno 10 addetti fa uso del computer ma, mentre in altri Paesi europei i dipendenti hanno la possibilità di acquisire le competenze informatiche, da noi invece questo aggiornamento non è presente.
Quello che emerge è un Paese che arranca perché non ha una visione d’insieme che permetta di sviluppare la conoscenza in modo sistematico e più omogeneo su tutto il territorio nazionale, non solo in alcuni centri d’eccellenza. Ne va del futuro delle giovani generazioni che, per fortuna, presentano dei tassi di lettura più alti di altre fasce d’età. Nonostante Internet e lo smartphone, i giovani leggono libri più dei loro genitori o nonni e questo è di buon auspicio affinché si riesca a colmare il divario esistente. È un lungo cammino, in parte ancora tutto da compiere.