No all’espulsione di rifugiati da Israele
26 gennaio 2018
Rabbini, sopravvissuti alla Shoah, intellettuali e società civile contro la decisione di Netanyahu di espellere 40 mila persone dal Paese
Ispirata dai vari movimenti che nel corso dei secoli hanno sostenuto il diritto di asilo, e ben conscia delle peregrinazioni cui il suo popolo è sempre stato costretto nel corso della storia, una rabbina israeliana ha lanciato un appello ai colleghi per trovare rifugio e accoglienza per i circa 40 mila richiedenti asilo africani che rischiano di venir deportati e rispediti in patria dal governo. La rabbina Susan Silverman è anche un’attivista per i diritti umani, arrestata nel 2015 durante le manifestazioni che hanno visto le donne leggere la Torah ai piedi del Muro del Pianto (secondo la tradizione le donne non possono condurre la preghiera, indossare paramenti religiosi e leggere la Torah).
Lo scorso dicembre il premier Benjamin Netanyahu ha dichiarato che il governo avrebbe espulso tutti i richiedenti asilo africani entro la fine di marzo, se questi non avessero accettato l’offerta di 3.500 dollari e di un biglietto per lasciare il Paese. La maggior parte di questi rifugiati proviene da Eritrea e Sudan ed è giunta illegalmente in Israele attraverso l’Egitto. A nulla sono valsi i molti appelli anche internazionali per la tutela dell’incolumità di queste persone.
Susan Silverman ha svelato il suo piano in una conferenza stampa nei giorni scorsi. Intitolato “Movimento per il diritto di asilo ecclesiastico della casa di Anna Frank” fa appello ai rabbini che come lei sono membri dell’ “Organizzazione israeliana dei rabbini per i diritti dell’uomo”: circa 200 membri, chiamati ad ospitare i richiedenti asilo nel caso in cui il governo proceda nel suo piano di espulsione.
La famiglia di Anna Frank è stata ospitata e nascosta da cristiani prima di venire deportata in un campo di concentramento. «L’idea non è nuova. E per lungo tempo gli ebrei che si trovavano in luoghi e situazioni pericolose, sono stati protetti. Ora è il nostro turno» ha dichiarato Silverman che ha proseguito ricordando come «Oggi noi abbiamo il nostro Stato, abbiamo il potere e la capacità di proteggere lo straniero, come ordinato nella Torah in ben 36 occasioni».
«Come rabbino e essere umano sono chiamato a offrire asilo. Il fatto che il governo israeliano progetti di deportare migliaia di persone significa che la nostra società ha sbagliato completamente nelle sue priorità. Se qualcuno mi avesse detto in passato che le cose sarebbero andate in questo modo, non avrei mai creduto che uno stato ebraico potesse inviare profughi disperati verso la morte. E’ nostra responsabilità impedire che ciò accada».
Dei 40 mila cittadini eritrei e sudanesi presenti in Israele, 5 mila sono bambini già nati nel Paese. Pressoché tutti hanno visti temporanei che vanno rinnovati ogni tre mesi e che ora il governo vuole interrompere. Oltre al carcere per chi decidesse di non andarsene, anche eventuali datori di lavoro rischieranno sanzioni in caso di controlli.
Nella prima fase di questa epurazione dovrebbero scamparla le donne, i bambini e gli over 60, e i circa 6 mila che hanno presentato regolare domanda per ottenere lo status di rifugiato. Al momento solo dieci persone, un numero ridicolo, ha ottenuto i documenti che attestano tale status. Sui rimpatriati verso paesi terzi, Rwanda e Uganda soprattutto (nazioni che hanno siglato un patto con Tel Aviv), il governo israeliano non compie alcun controllo. Si tratta di due nazioni alle prese a loro volta con enormi difficoltà, tant’è che chi vi viene inviato ricomincia il viaggio verso Nord, verso la Libia, l’Egitto, il Mediterraneo o di nuovo Israele.
Dopo aprile la cifra offerta dalle autorità israeliane inizierà progressivamente a calare, ma non cesseranno le espulsioni. In contemporanea da fine novembre sono iniziate le procedure per chiudere il centro di detenzione per migranti nel deserto del Negev, che costava alle casse di Israele 58 milioni di dollari l’anno.
In una dichiarazione, l'Ufficio dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) ha espresso la sua preoccupazione, ricordando in particolare che Israele aveva «obblighi giuridici in materia di protezione dei rifugiati». La maggior parte di questi migranti è entrata in Israele illegalmente attraverso il Sinai egiziano dal 2007. Questi arrivi di rifugiati sono stati rallentati dalla costruzione da parte del governo israeliano di una recinzione elettronica lungo il confine con l'Egitto.
I migranti che si rifiutano di andarsene saranno trasferiti in prigione, hanno detto le autorità israeliane.
Destinata a far clamore intanto è la lettera spedita ieri 25 gennaio a Benjamin Netanyahu da 36 sopravvissuti israeliani all’Olocausto: «Proprio perché siamo ebrei – si legge – sappiamo cosa vuol dire sentirsi abbandonati nel momento più difficile. Per questo non possiamo cedere all’indifferenza. Lo stato israeliano deve difendere i rifugiati». Si tratta solo dell’ultimo appello in ordine di tempo dopo quelli di molti intellettuali (David Grossman, Amoz Oz e Abraham Yehoshua fra questi).
Anche i piloti della principale compagnia aerea del Paese, la El Al, in un comunicato hanno annunciato di rifiutare di pilotare aerei destinati al rimpatrio di persone in Africa e hanno invitato i loro colleghi di altre compagnie a fare altrettanto. Insomma una mobilitazione in grande stile che però Netanyahu pare voler ignorare.
Vedremo se anche di fronte ai sopravvissuti alla Shoah il premier riuscirà a giustificare con la necessità della sicurezza interna quella che alla società civile pare una vera e propria deportazione.