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Anglicani e metodisti inglesi verso l’unità?

Il prossimo sinodo della Chiesa d’Inghilterra voterà su una possibile stretta collaborazione, a partire dalla condivisione dei pastori, il vero scoglio da superare

I delegati al prossimo sinodo generale della Chiesa d’Inghilterra che si terrà a Londra dal 5 al 10 febbraio discuteranno sulla possibilità di nuove e più strette relazioni con la Chiesa metodista inglese. I ministri di culto metodisti potrebbero venire riconosciuti quali officianti anche dalla controparte anglicana, creando di fatto una comunione fra le due realtà. Al contempo sacerdoti anglicani potrebbero predicare nelle comunità metodiste. L’attuale relazione è frutto della definizione data dall’accordo metodista-anglicano del 2003, che include vari impegni a lavorare insieme su settori quali quello di missione, e nei processi decisionali.

Nel documento che verrà discusso nel sinodo si legge che «gli accordi del 2003 non intendevano essere una meta fissa, ma piuttosto un importante trampolino di lancio sulla via verso l’unità organica». Il testo sottolinea l’impatto di una più stretta comunione, comprese opportunità di condividere «nuove modalità di pregare e testimoniare, e una cooperazione ecumenica per la sopravvivenza e la missione delle chiese rurali». Sono proprio le comunità lontane dai grandi centri abitati a patire i problemi maggiori. Nel tempo è divenuto insostenibile sia da un punto di visto economico che di personale gestire parrocchie in ogni paese, e si è resa quindi necessaria una riorganizzazione mirata a non lasciare comunque intere aree senza una testimonianza cristiana. Discorso valido anche per le periferie delle grandi città, luoghi in cui si rende necessario un’attività e una partecipazione intensa, di fronte alle molte difficoltà che si incontrano in simili realtà.

Uno degli scogli più ardui da superare per la Chiesa d’Inghilterra pare esser rappresentata dall’ordinazione pastorale, che avviene in ambito anglicano per via episcopale, e dalla conseguente successione apostolica, mentre attualmente i ministri metodisti sono ordinati dal presbiteriale presidente della Conferenza metodista e non da un vescovo. In numerose interviste sui giornali vari vescovi anglicani hanno proprio sottolineato questa difficoltà che potrebbe creare tensioni e malumori fra clero e laici. Ma in realtà sono molti a vivere con dolore una separazione che non era nelle intenzioni di chi ha dato vita al metodismo, John Wesley.

In una dichiarazione congiunta che introduce le varie proposte, il vescovo anglicano Jonathan Baker e il metodista Neil Richardson affermano: «Crediamo che queste differenze sul ministero episcopale e sulla riconciliazione dei ministeri presbiteriali possano ora essere affrontate per giungere a nuove definizioni. Ciò consentirà una nuova profonda comunione tra le nostre chiese e migliorerà la nostra missione comune, rendere gloria a Dio».

Una precedente proposta di unità era stata bocciata di misura dal sinodo generale del 1972.

Il metodismo nasce proprio da una frattura causata dal pastore anglicano John Wesley nel XVIII secolo, fautore di un movimento di risveglio volto a prestare maggiore attenzione ai problemi sociali della Gran Bretagna alle prese con la rivoluzione industriale. Wesley non aveva intenzione di creare una nuova chiesa, ma piuttosto rinvigorire, risvegliare un anglicanesimo in cui faticava a riconoscersi, tanto che il metodismo si strutturerà come dottrina soltanto dopo la sua morte.

In Italia i metodisti si inseriscono nel risveglio culturale e religioso del Risorgimento, con l’arrivo nel 1859 di William Arthur, segretario della Wesleyan Methodist Missionary Society di Londra. Sebbene originate da missioni estere, le chiese metodiste si interpretarono subito come una componente attiva e dialogante della società italiana. Si riconoscono nella confessione di fede del 1655 e hanno lo stesso ordinamento sinodale-rappresentativo della Chiesa valdese, con la quale hanno messo in atto un processo unico nel suo genere che si è concluso con il Patto di integrazione del 1975 e il Sinodo unico del 1979. Le due chiese, cioè le due tradizioni confessionali, sono mantenute; le comunità che sino al 1975 erano valdesi o metodiste permangono tali, con il loro sistema di nomina dei deputati e la gestione del loro patrimonio immobiliare. A provvedere a quello delle chiese metodiste è nominata un'apposita commissione sinodale (OPCEMI, Opera per le chiese metodiste in Italia).
Unitario è invece il luogo decisionale, il sinodo, dove sono tracciate le linee di impegno e di testimonianza comuni.

 

 

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