Per i Rohingya non è ancora tempo di tornare a casa
11 dicembre 2017
L’accordo tra Bangladesh e Myanmar per il rimpatrio dei profughi Rohingya non convince le organizzazioni umanitarie, perché mancano le necessarie condizioni di sicurezza e cittadinanza
All’inizio di dicembre i governi di Bangladesh e Myanmar hanno raggiunto un accordo che prevede l’inizio del percorso di rimpatrio dei rifugiati Rohingya che si trovano in Bangladesh.
Spesso descritti come “la minoranza più perseguitata al mondo”, i Rohingya sono un gruppo etnico a maggioranza musulmana che vive da secoli in Myanmar, dove rappresenta una tra le 135 etnie di uno tra i Paesi con la più alta diversità al mondo. Tuttavia, a differenza delle altre, non è riconosciuta ufficialmente, e dal 1982 ai Rohingya viene negata la cittadinanza birmana, sostituita da uno condizione di apolidismo che condanna oltre un milione di persone alla clandestinità permanente.
La quasi totalità dei Rohingya in Myanmar vive nello Stato occidentale del Rakhine, al confine con il Bangladesh, una tra le regioni più povere del Paese, priva dei più elementari servizi e da cui non è permesso uscire, se non spingendosi ancora più a est, verso quel Bangladesh che considera i Rohingya immigrati clandestini. Inoltre, il governo del Myanmar, di fatto guidato dal premio Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi, ha finora sempre evitato di toccare il tema delle persecuzioni contro la minoranza musulmana, al punto che, nella recente visita di Papa Francesco, non si è mai fatto il nome dei Rohingya, che non vengono neppure riconosciuti come gruppo etnico.
Proprio per questo, in Bangladesh si trova oggi oltre mezzo milione di rifugiati che vivono in ricoveri di fortuna e che in gran parte non sono registrati. Il Bangladesh, infatti, considera la gran parte di questi rifugiati come “illegalmente infiltrati” nel Paese, e per questo ha spesso cercato di evitare che i Rohingya attraversassero il Paese.
Tuttavia, recentemente il ministro degli esteri bengalese ha definito le violenze contro i Rohingya in Myanmar “un genocidio”. Allo stesso tempo, la Commissione per i diritti umani del Bangladesh ha detto che ha intenzione di portare il governo e l’esercito del Myanmar di fronte a una corte internazionale con l’accusa di genocidio.
Nonostante queste prese di posizione, il governo di Dhaka ha sempre rifiutato il pieno riconoscimento dei Rohingya, a cui infatti è vietato uscire dalle aree di confine e circolare nel resto del Paese. Durante una visita a un campo profughi Rohingya a settembre, la premier del Bangladesh, Sheikh Hasina, ha ribadito che i Rohingya sono cittadini birmani, e proprio per questo devono poter rientrare al più presto in Myanmar.
L’accordo raggiunto il 4 dicembre dai governi dei due Paesi, pur favorendo questo processo, non convince del tutto. Secondo l’organizzazione umanitaria Save The Children, non è possibile procedere al rimpatrio dei Rohingya se prima non verrà garantita la loro sicurezza in Myanmar e se non verrà assicurata giustizia per i gravi crimini commessi.
Filippo Ungaro, direttore della comunicazione per Save The Children Italia, racconta che l’ipotesi del rimpatrio «sia concreta dal punto di vista di una dichiarazione di intenti, mentre dal punto di vista della fattibilità di questa operazione ci sono molti dubbi».
A che cosa si riferisce in particolare?
«Questa popolazione è una popolazione di perseguitati, purtroppo non bene accetti né da uno Stato né dall’altro, né dal Bangladesh né dal Myanmar. È una questione che in qualche modo va risolta, e da qui deriva la dichiarazione di voler rimpatriare questa popolazione. Alla prova dei fatti ci sono tante difficoltà di tipo operativo e soprattutto, e non lo pensiamo solo noi, devono esserci le giuste condizioni».
In particolare a quali fa riferimento?
«Innanzitutto il rimpatrio dev’essere volontario e non forzato, poi ci devono essere le giuste garanzie di sicurezza e di assistenza materiale. Non dimentichiamoci che tantissime testimonianze riportano di violenze molto dure e inaccettabili: villaggi bruciati, donne stuprate, addirittura abbiamo testimonianze di neonati dati alle fiamme, gesti davvero atroci. Non credo che la popolazione dei Rohingya si senta nelle giuste condizioni per poter tornare a casa».
Anche perché la violenza nei loro confronti è su molti livelli, perché c’è una violenza che arriva dal basso, c’è una violenza che arriva dai quadri medi delle forze dell’ordine e poi c’è un altro tipo di violenza, quella del non riconoscimento civile e di cittadinanza che invece arriva dai vertici dello Stato: tre livelli di violenza che hanno bisogno chiaramente di un intervento combinato e hanno bisogno di un intervento a più livelli. Save The Children chiede ai leader dell’Unione europea un piano per porre fine alla crisi umanitaria. Come si pensa di gestire l’emergenza?
«Nell’immediato occorre dare piena assistenza umanitaria alla popolazione nello Stato del Rakhine, da dove provengono i Rohingya, all’interno del Myanmar. Purtroppo in questo momento nessuna organizzazione umanitaria internazionale riesce ad avere accesso allo stato del Rakhine e anche lì ci sono diverse decine di migliaia di sfollati interni, che vivono sostanzialmente in campi di detenzione, che sono scappati anche loro dai loro villaggi. Alcuni po sono nascosti nelle foreste e vivono in una situazione umanitaria non facile. C’è quindi bisogno di garantire la sicurezza fisica, materiale e legale dei rimpatriati in un processo di rimpatrio che dev’essere volontario e supervisionato dall’Unhcr».
C’è anche una dimensione strutturale?
«Sì, nel medio periodo è necessario far partire indagini indipendenti sulle violenze commesse e anche assicurare in qualche modo questi criminali alla giustizia. L’Unione europea in questo può aiutare decretando sanzioni finanziarie e un embargo sulle armi. Fatto questo, c’è un livello di un lungo periodo che prevedere il riconoscimento dei diritti per questa popolazione che da decenni viene perseguitata e a cui non viene riconosciuto alcun tipo di diritto di cittadinanza».
È difficile che si possano ottenere risultati finché non ci sarà una chiara azione governativa internazionale. Ci sono segnali di passi avanti in questo senso?
«Purtroppo la comunità internazionale nel suo complesso non sta brillando rispetto al riconoscimento dei diritti umani delle persone. Credo che i Rohingya siano l’ennesimo simbolo di una discriminazione degli ultimi della Terra, vengono considerati degli immigrati illegali, degli apolidi. Non bisogna andare lontani dal nostro Paese per vedere come tante altre persone vengano considerate come immigrati illegali perché scappano da violenze, da guerre o anche “semplicemente” dalla fame. Sono popolazioni che hanno necessità di costruirsi un presente, un futuro degno di essere vissuto per loro e per i propri figli. Questa mancanza di riconoscimento dei diritti a livello globale per queste popolazioni che scappano credo sia una cosa molto grave».