Egitto, vittime collaterali
27 novembre 2017
Spiegare l’attentato di venerdì 24 con l’odio religioso è impreciso. Secondo l’analista Giuseppe Dentice (Ispi) il vero bersaglio è il governo egiziano di al-Sisi e la sua retorica della sicurezza
Nella mattina di venerdì 24 novembre la moschea al-Rawda di Bir al-Abed, una località costiera del Sinai, sulla laguna di Bardawil, è stata attaccata da un gruppo di uomini armati, che hanno ucciso 305 persone e ferite almeno 128, almeno secondo l’ultimo bilancio. Per numero di vittime si tratta del più grave attentato nella storia dell’Egitto dopo la cacciata di Hosni Mubarak, avvenuta nel 2011. La penisola del Sinai rappresenta uno degli angoli più instabili e preoccupanti del Paese e la sua posizione, quella di un ponte tra Nord Africa, Penisola arabica e Medio oriente, lo rende da decenni terreno di scontro e conquista da parte di chiunque voglia esercitare una qualche forma di controllo sulla regione.
Storicamente culla del malcontento contro il governo centrale, in particolare con le proteste delle popolazioni beduine, dopo la Primavera egiziana del 2011 ha visto crescere la presenza di gruppi jihadisti, che hanno saputo sfruttare la confusione delle varie transizioni politiche. Si pensa che, oltre a un gruppo affiliato al Daesh (o Isis), ci siano almeno alte quattro movimenti legati ad al-Qaeda attivi in questo momento, che hanno rivendicato anche la bomba del 2015 a bordo del volo MetroJet, a causa di cui morirono 224 persone, principalmente turisti russi.
Anche se la maggior parte degli attentati vengono compiuti contro la polizia e i rappresentanti dello Stato, da alcuni anni si sono intensificate anche le violenze contro la minoranza cristiana e contro i musulmani Sufi. Tuttavia, non è chiaro quanto per questi gruppi si tratti di vittime prioritarie o di “bersagli per procura”. «I numeri – spiega Giuseppe Dentice, ricercatore di Ispi e dottorando all’Università Cattolica del Sacro Cuore – non sono sempre una fotografia perfetta della realtà, ma mi sento di dire che mai come in questo caso siano un macigno, pesante e anche molto grave in termini politici».
Come mai?
«Innanzitutto perché 305 morti sono un duro colpo per il presidente al-Sisi, che della sicurezza nella lotta al terrorismo aveva fatto un vanto, in un certo senso anche un marchio di fabbrica del proprio mandato elettorato. Inoltre, continua a esserlo anche nella futura campagna elettorale, visto che tra qualche mese ci saranno le nuove elezioni presidenziali in Egitto. È anche un duro colpo alla credibilità stessa delle istituzioni egiziane, che a distanza di anni, perché il fenomeno terroristico non è nuovo in Egitto ma storicamente connaturato, nonostante gli investimenti e le misure adottate, spesso definite draconiane o liberticide dalle organizzazioni non governative internazionali. Questi attentati dimostrano che questo Paese ha ancora difficoltà nel contenere un fenomeno parzialmente limitato a una regione, anche se poi ormai ha preso piede in tutto il territorio».
Molti analisti hanno sottolineato che questa moschea fosse una moschea sufi, quindi particolarmente odiosa per i movimenti jihadisti. Questa motivazione regge nello spiegare l’attentato?
«Credo che regga solo a metà. È vero che i sufi, proprio come i cristiani, sono considerati degli apostati, degli eretici dai jihadisti. Tuttavia, non credo che l’obiettivo degli attacchi fossero essenzialmente i sufi, che sono storicamente obiettivo di violenze trasversali da parte di più gruppi. Il vero obiettivo, a mio modo di vedere, è dettato dal fatto che si volesse punire la popolazione locale, composta per lo più da comunità beduine che negli anni hanno parzialmente rotto quel vincolo di fedeltà che avevano prestato con alcune sigle jihadiste tornando a collaborare con le istituzioni egiziane, che si sottintendono essere l’esercito. Insomma, è un modo per lanciare un messaggio intimidatorio e riaffermare allo stesso tempo la propria autorità su un territorio che reputano di loro competenza, un modo come un altro per riaffermare potere e leadership».
Spesso ci concentriamo molto sugli attentatori e poco sulle vittime. In queste comunità, in particolare penso a copti e sufi, si è sviluppata una paura tale per cui si recede dalla pratica della propria fede e identità?
«Mi sento di dire che la loro identità, che siano sufi o siano copti, è molto forte e radicata, sia nella loro storia sia nella loro professione di fede, quindi è difficile pensare che si possa, nonostante il terrore, creare una svolta anche religiosa o identitaria. Più che altro è evidente che questo tipo di realtà ormai costantemente sotto attacco richiedono maggiore protezione alle autorità politiche e pertanto manifestano un loro malessere e disappunto, finora in maniera legale. Il rischio, come sempre, è che dalla legalità si possa passare all’extra-legalità. A oggi non abbiamo sentore di ciò, però non è così improbabile pensare, come già accaduto in altre realtà, che ci possano essere delle situazioni-limite in cui, per difendersi da possibili atti stragisti, si passi ad azioni armate. È vero che questa dinamica è più verosimile in un contesto propriamente africano, penso al LRA, il Lord’s Resistance Army, di Joseph Kony, che è una milizia ex cristiana fondamentalista, però in una situazione estrema non è impossibile pensare che ciò possa avvenire».
La sempre più marcata inconsistenza territoriale del Daesh può far pensare che, come successo per esempio in Somalia con al Shabaab, la stagione stragista sia destinata a incrementarsi?
«I rischi sono abbastanza evidenti: la frammentazione e la debolezza dal punto di vista strutturale portano a un possibile effetto emulativo e riproduttivo di attentati in sequenza. Lo abbiamo visto con al-Shabaab, ma anche in altri teatri, come quello di Siria e Iraq, in cui a una ritirata strategica corrisponde sempre un aumento del numero di attacchi contro la popolazione civile, contro i luoghi di culto e contro le istituzioni. Si tratta di dinamiche che si riproducono anche in altri teatri, tra cui quello del Sinai o l’Egitto nel suo complesso».