Negli ultimi dieci anni – tra il 2008 e il 2017 – la Polonia ha ricevuto poco più di 90.000 richieste d’asilo e protezione internazionale, un numero inferiore a quello delle domande inoltrate in Italia nel solo 2016 e che quasi scompare di fronte alle 750.000 della Germania dello scorso anno. Al tempo stesso, la Polonia è il Paese europeo con la più bassa percentuale residenti di origine straniera, appena l’1,6% della popolazione. Eppure, una parte della popolazione polacca si sente assediata dai rifugiati.
Del resto, le politiche di chiusura nei confronti degli stranieri promosse dal governo, forte anche dell’alleanza con altri Paesi dell’Europa centro-orientale in quello che viene chiamato “gruppo di Visegrad”, insistono spesso su questa retorica dell’invasione, molto cara anche ai movimenti sovranisti italiani e preziosa per ricompattare l’elettorato in un blocco il più possibile uniforme. Specchio di questa narrativa dell’invasione è sicuramente anche la manifestazione che sabato 11 novembre ha portato nelle strade di Varsavia un messaggio di chiusura e intolleranza.
60.000 persone hanno sfilato nella capitale in occasione del Giorno dell’Indipendenza, in occasione del novantanovesimo anniversario dell’indipendenza da Austria-Ungheria, Prussia e Russia, avvenuta nel 1918. Il bianco e il rosso della bandiera polacca, come da tradizione, hanno dominato la piazza, ma a questo si sono aggiunti fumogeni rossi e un’aggressività e una violenza che stonano con la dimensione celebrativa della giornata. Alla presenza di rappresentanti di tutti i più importanti esponenti dei movimenti neofascisti d’Europa, si sono sentiti slogan come “Dio, Onore, Patria”, “Polonia pura, Polonia bianca”, “fuori i rifugiati”, “rifugiati al diavolo” o addirittura “Vogliamo Dio”, un verso tratto da un inno patriottico e già utilizzato dagli attivisti di Solidarność durante gli anni della dittatura. Un segno della volontà di fondere insieme estrema destra e fede religiosa, non nuova nella storia europea degli ultimi 100 anni.
Salvatore Greco, responsabile di PoloniCult, blog italiano di cultura polacca e residente a Varsavia, racconta che «l’elemento nazionalista e neofascista era preponderante, ma non bisogna dimenticare che l’11 novembre è festa nazionale. È un giorno in cui non si lavora, è una festa di popolo sentita molto anche da tante persone non legate alla politica, bambini, anziani, gente che nella propria vita non fa nessun tipo di attivismo e che magari quel giorno sente il piacere e l’orgoglio di uscire con una coccarda, una fascia al braccio, una bandiera polacca. Il problema della marcia dell’indipendenza, che non è una manifestazione dello Stato, ma una manifestazione organizzata da un po’ meno di dieci anni da alcune sigle dell’ultradestra, è che negli anni è diventata talmente grande da superare in dimensione anche le manifestazioni statali. Quelle 60.000 persone non erano forse tutti nazionalisti, ma in buona parte era da quello spirito che erano mossi, quindi questo è il dato preoccupante».
Non solo nazionalisti, però: c’è anche una forte componente di richiamo alla tradizione religiosa, giusto?
«C’è un utilizzo dell’identità cattolica della Polonia come un’arma di difesa da parte di questi nazionalisti. Lo stesso Lech Wałęsa, così come gli stessi esponenti di Solidarność, sono profondamente detestati da chi oggi fa parte di queste frange dell’ultradestra, che hanno preso in parte quelli slogan e li hanno aggiunti ai loro messaggi di carattere nazionalista, suprematista bianco, che già comprendevano slogan antiislamici e antisemiti. Questi gruppi hanno ricostruito un’identità della Polonia trasformata secondo le loro esigenze. C’è poi una parte della chiesa cattolica polacca che approva questo tipo di narrazione, anche in contrasto aperto con l’attuale messaggio di Papa Francesco, e lo fanno difendendo invece l’operato di Giovanni Paolo II, ma in una loro versione travisata che vede il cattolicesimo e la Polonia fondersi e costituire un bastione di difesa contro tutto ciò che è esterno».
Il partito di governo, il Pis, che esprime tanto il presidente Andrzej Duda quanto la premier Beata Szydło, ha preso le distanze?
«No, tutt’altro: il partito di governo, sebbene non vi partecipi ufficialmente, è un sostenitore passivo di queste manifestazioni. È di un anno fa la notizia di fondi del partito usati per finanziare la partecipazione alla marcia, mentre sono di questi giorni i commenti arrivati dal ministro dell’Interno, che è arrivato a dire che la manifestazione è stata un simbolo di quanto la Polonia sia un’oasi di libertà e tolleranza. Peraltro, segnalo che mentre la marcia sfilava liberamente sotto gli occhi della polizia con i cori di cui si è detto, sfoggiando manifesti con croci celtiche e usando slogan presi in prestito dal Ku Klux Klan, alcuni attivisti della marcia antifascista organizzata da altri gruppi sono stati fermati dalla polizia.
Ci terrei anche a dire che un giornalista e scrittore, Bartek Sabela, è stato arrestato per possesso di propaganda fascista. In realtà è stato fermato perché, come azione antifascista, portava con sé dei manifesti su cui si mostravano delle foto delle manifestazioni degli anni scorsi, piene di simboli fascisti. Ecco, i simboli fascisti riportati per condanna sono stati bloccati dalla polizia, mentre chi li sfoggiava con orgoglio ha potuto marciare liberamente. È il segno evidente che la polizia ha avuto da parte del governo la chiara indicazione di lasciar passare».
Questa manifestazione va letta più come un segnale rivolto all’Europa o c’è da tenere in conto una differente chiave di lettura?
«Il messaggio di intolleranza di questa manifestazione è in buona parte rivolto verso l’Europa, considerata da queste frange della società polacca il serbatoio da cui arrivano frotte di migranti, che peraltro in Polonia non si vedono, o comunque di politiche che li costringano ad accettarli.. L’Europa è vista come uno strumento di cancellazione dell’identità, una minaccia. C’è sicuramente un problema reale, dettato dal fatto che tutto ciò che di buono arriva dall’Europa, in termini soprattutto economici e ancora di più finanziari, quando arriva in Polonia si ferma nelle grandi città e fa fatica ad uscire. L’Europa vista da pochi chilometri fuori da Varsavia, da Poznan o da Cracovia è nient’altro che un fantoccio che in cambio di pochi spiccioli, che peraltro le fasce più deboli non hanno, costringe a politiche antinazionali. Sicuramente lo spettro per adesso è l’Europa».
L’evoluzione – o involuzione – della politica in questi anni ha in qualche modo piegato anche la produzione culturale polacca verso quelle posizioni?
«Non direi. Anzi, c’è stata una polarizzazione estrema che vede da una parte la società civile liberale, che si è organizzata su posizioni molto forti all’opposizione e vede pressoché qualsiasi intellettuale o scrittore conosciuto all’estero esprimere posizioni negative nei confronti del governo. Dall’altra si è invece creata una sorta di blocco, una cortina, attorno alle posizioni del governo, formata però da un gruppo di intellettuali che si fa fatica a definire tali. Sembra di rivivere la situazione del socialismo reale, con gli autori del realismo socialista fedeli al potere, ma che in realtà erano poco più che scribacchini, con una quantità invece di autori di qualità che superano i confini e che sono letti anche all’estero che hanno tutt’altro peso e altre posizioni».
La trasformazione politica della Polonia è ancora in corso e per certi versi somiglia molto a quella di altri Paesi europei che vengono definiti “democrature”, una via di mezzo tra sistemi democratici e regimi autoritari. In Polonia la presenza di una società civile forte e di intellettuali schierati in modo chiaro permette ancora in qualche modo di sperare in un normale sviluppo democratico?
«Sì, perché la società civile polacca è più abituata a difendere la propria libertà rispetto ad altri Paesi nei quali ci sono situazioni politiche analoghe. Diciamo che per il momento la società civile di carattere liberale che si oppone al governo e a questo tipo di nazionalismo fa fatica a essere egemone, fa fatica a farsi riconoscere come tale. Spesso viene considerata come l’espressione di un’élite liberale un po’ snob e antinazionale, che però appunto dovrebbe fare qualcosa proprio in questo senso, per rubare quel campo alle forze che li vogliono segregare e ritrasformarsi in potenza nazionale. Per adesso quella parte di società civile che si oppone parla un po’ troppo soltanto a se stessa. Ecco, è questo il grave problema».