La Corte Suprema dell’India ha proclamato il suo verdetto: per tre giudici su cinque (un indù, un musulmano, un cristiano, un parsi e un jain) il «divorzio lampo» è illegittimo e non può essere applicato. (Ne avevamo parlato qui)
Una decisione storica, giunta alla fine di agosto, che apre uno spiraglio per le molte donne musulmane colpite dall’ingiustizia di questa pratica tradizionale, ed è certamente una vittoria per i tanti sostenitori della loro battaglia civile (tra cui anche organizzazioni islamiche moderate, come Bharatiya Mahila Andolan).
Ciononostante, la sentenza da sola non segna una rottura vera e propria, in quanto già nel 2002 una precedente sentenza andava in questa direzione, diverse Alte Corti l’avevano applicata e un buon avvocato avrebbe già potuto appellarsi ad essa per fare invalidare il «talaq» (nome di questa pratica, che consiste nel pronunciare tre volte la parola corrispondente a «ti lascio» per rendere effettivo e immediato il divorzio di un uomo dalla moglie), ma a livello locale e individuale in molti avevano ignorato questa decisione della Corte, peraltro non molto divulgata dai media. Cosa che, per fortuna, non è avvenuta oggi.
Non tutti però gioiscono per questa sentenza: l’organizzazione non governativa All India Muslim Personal Law Board ribadisce la contrarietà all’interferenza della legge civile su una pratica considerata eminentemente religiosa e culturale, e questo contro gli articoli 25 e 26 della Costituzione indiana sulla libertà religiosa.
I lati oscuri della sentenza non hanno tardato a emergere, con la strumentalizzazione politica nella propaganda anti-musulmana nel Paese, che rischia di acuire una situazione di conflitto già assai accesa tra i nazionalisti indù e la minoranza musulmana (che costituisce la minoranza più consistente con il 14% della popolazione, contro l’80% di indù): si susseguono, anche negli ultimi mesi, i casi di aggressioni a musulmani accusati di avere macellato mucche o consumato carne bovina o a persone colpite semplicemente perché «sembravano musulmane».
Proprio sul delicato crinale fra giustizia sociale e libertà religiosa si gioca ora la battaglia civile, che non può certo dirsi conclusa: dopo la sentenza sul talaq (che bisognerà vedere quanto sarà applicata, soprattutto nelle zone rurali) si dovrà mettere mano anche al Codice civile per garantire una effettiva parità di genere. E lavorare sulla mentalità e le convinzioni personali, ma per quello ci vorrà molto tempo.