A differenza di molte altre, la storia delle tensioni lungo il confine tra Israele e Palestina non può essere raccontata partendo dalla fine, perché – almeno a oggi – una conclusione non esiste. Per entrare in questa storia, l’unica possibilità è partire da quello che finora è l’ultimo capitolo di una stesura che sembra molto lontana dall’epilogo. Se questa fosse una storia, una simile evoluzione potrebbe essere avvincente, ma per come condiziona la vita di milioni di persone, al di qua e al di là della frontiera, l’unica definizione possibile è quella di “preoccupante”.
Stando alle dichiarazioni rilasciate martedì 25 luglio, i fedeli musulmani di Gerusalemme continueranno a boicottare l’area della Spianata delle Moschee, dove sorge la moschea di al-Aqsa. Il presidente palestinese, Abu Mazen, ha annunciato nella stessa giornata che manterrà congelati i rapporti con Israele nonostante lo smantellamento dei metal detector che erano stati il fattore scatenante delle violenze delle ultime due settimane. «A meno che non si torni alla situazione precedente a quella del 14 luglio – ha dichiarato lunedì 24 Abu Mazen – non ci sarà nessun cambiamento».
«Dobbiamo ripartire proprio da quel che è successo lo scorso 14 luglio – afferma Lucia Cuocci, giornalista esperta della questione israelo-palestinese e collaboratrice di Protestantesimo e Rsi – quando due palestinesi hanno ucciso due militari israeliani e poi sono andati a nascondersi proprio nella Spianata delle Moschee. La risposta del governo di Tel Aviv è arrivata immediata con il divieto di accesso alla Spianata a chi ha meno di 50 anni e con l’installazione di metal detector. Questo ha scatenato una nuova rabbia portando all’uccisione di tre palestinesi, a cui ha fatto seguito poi l’uccisione di tre coloni israeliani».
Non è la prima volta che la Spianata delle Moschee, e in particolare la moschea al Aqsa, che costituisce la parte del complesso riservata alle preghiere guidate, si trova al centro di scontri e tensioni fra palestinesi e israeliani. Lo status quo dell’area, definito da un accordo tra Giordania e Israele nel 1967, ribadito nell’intesa del 1994 e rafforzato nell’ottobre del 2015, prevede che la gestione della Spianata sia affidata all’associazione islamica giordana Waqf e che soltanto i musulmani possano pregare nel complesso, ma che l’accesso sia regolato dalle autorità israeliane, che si occupano anche della sicurezza. Secondo chi è sceso in strada a manifestare, l’installazione dei metal detector ha rotto il precario equilibrio, e neppure la sostituzione di questi varchi con “soluzioni diverse a elevata tecnologia”, come sono state definite dalla polizia israeliana, sembra aver risolto la questione. Il Gran Muftì di Gerusalemme, Muhammad Hussein, ha affermato che «è necessario conoscere tutti i dettagli prima di decidere se tornare a pregare nel complesso», e alle parole di Abu Mazen hanno fatto eco quelle del governo giordano, che ha ribadito la necessità di procedere con cautela.
L’importanza del luogo, del resto, è evidente a tutte le parti in causa e anche agli osservatori esterni, tanto da poter considerare quanto accade sulla Spianata e nei dintorni come uno specchio più ampio dell’intera questione israelo-palestinese. «La collina – racconta Lucia Cuocci – si trova all’interno della città vecchia, che oltre ad Al-Aqsa, che è l’edificio più importante, contiene anche la Cupola della roccia, costruita dove secondo l’Islam il profeta Maometto è salito al cielo. Sia gli ebrei sia i musulmani concordano poi sul fatto che questa è proprio la roccia dove Abramo stava per sacrificare suo figlio Isacco su richiesta di Dio. Questo lo rende il terzo luogo più sacro per l’Islam, dopo la Mecca e Medina in Arabia Saudita, ma la questione si complica perché nello stesso luogo dove si trova la Spianata delle Moschee quasi duemila anni fa sorgeva il Tempio di Salomone, cioè il principale luogo sacro per gli ebrei, che fu poi distrutto dai Romani nel 70 dopo Cristo. Il muro del tempio di Salomone che è rimasto in piedi è detto Kotel in ebraico, cioè il muro occidentale, che è appunto il luogo in cui gli ebrei vanno a pregare, quello che noi chiamiamo “muro del pianto”».
Le esperienze recenti suggeriscono che simili tensioni siano molto facili da alimentare, ma estremamente complesse da disinnescare. Uno dei momenti centrali per capire se la continuazione delle proteste avrà carattere violento sarà la preghiera di venerdì 28, per la quale le forze di sicurezza israeliane saranno schierate in forze. Questa fase di attacchi da parte dei Palestinesi riporta a galla azioni che si erano fortemente ridotte negli ultimi anni, ed è la prova di quanto possa bastare una piccola scintilla per far esplodere le grandi tensioni che covano tra le strade di Gerusalemme. Lucia Cuocci definisce la questione della Spianata delle Moschee «un nervo scoperto di questo conflitto», ricordando che anche la seconda Intifada venne scatenata proprio dalla provocatoria passeggiata dell’allora leader dell’opposizione, Ariel Sharon, in questi luoghi.
«La Spianata delle Moschee – prosegue – rappresenta se vogliamo l’aspetto più religioso di questo conflitto, la scintilla, ma in realtà si gioca tutto sul terreno, in particolare sulla questione dei Territori occupati e delle colonie israeliane in Palestina».
Le colonie, infatti, vengono talvolta dimenticate nella narrazione della questione, ma ne costituiscono probabilmente uno tra gli aspetti di maggior rilevanza. Questi villaggi, in alcuni casi ormai vere e proprie città, sono illegali secondo la legge internazionale, perché nati all’interno di territori occupati militarmente con la guerra del 1967, ma sono stati in parte legalizzati dal governo israeliano «Tra l’altro – ricorda Lucia Cuocci – l’ultima legge, del febbraio 2017, ha valore retroattivo, perché afferma che alcuni insediamenti illegali diventeranno legali, e che i proprietari palestinesi di queste terre saranno in qualche modo risarciti. Questa legge in realtà si trova ancora all’Alta Corte, quindi se ne sta ancora discutendo».
La questione delle colonie, e in generale la pessima gestione delle tensioni di queste settimane da parte del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, hanno riportato alla luce il precario equilibrio su cui si regge la coalizione di governo, che il premier ha costruito tenendo all’interno i nazionalisti di estrema destra, come il ministro dell’Istruzione Naftali Bennett, proprio per la paura di essere sorpassato su un tema così critico.
Se per la politica israeliana quanto sta accadendo in questi giorni è un problema, lo stesso va detto della controparte palestinese, investita da una crisi di leadership ormai permanente. Le proteste, infatti, sono guidate da un sentimento popolare che proviene dalla base palestinese, fuori dagli schemi delle tradizionali fazioni politiche, ed è chiaro che Abu Mazen, sempre più impopolare, non può ignorare queste pulsioni. «Il fatto però – prosegue Cuocci – è che Abu Mazen ormai non è più in grado di controllare i suoi: spesso sembra soltanto rispondere a un’agenda dettata da Hamas. Questi focolai e questa debolezza, messi insieme, non fanno altro che alimentare gli estremismi».
Nella sera di martedì 25, fuori dalla Spianata i fedeli musulmani hanno ribadito la loro decisione di non accedere al complesso finché non sarà fatta chiarezza sulle nuove misure di sicurezza. Jawad al-Siyam, uno tra i più noti attivisti di Gerusalemme Est, ha spiegato che «i palestinesi potranno essere in disaccordo su qualsiasi cosa, ma non su al-Aqsa», facendo capire che la protesta non si fermerà presto.
In questa storia, però, non tutto può essere raccontato soltanto secondo la linea di demarcazione rappresentata dalla frontiera: «andando in quella terra – conclude Lucia Cuocci – ci si rende conto che dietro a questa rottura di rapporti diplomatici in realtà continuano non solo le esperienze di dialogo a parole, ma continua un dialogo costruito sui fatti. Ricordo per esempio le esperienze di ospedali israeliani che curano feriti siriani al confine. Rispetto a questa ufficialità che non funziona e che crea dei morti c’è una quotidianità dove israeliani e palestinesi si trovano fianco a fianco». Un segno di quello che spesso è soltanto un pregiudizio, ma che oggi in questi luoghi sembra corrispondere al vero: le popolazioni sono meglio dei loro leader. La speranza è che questa evidenza possa garantire, da una parte e dall’altra del muro, un ricambio generazionale oggi più che mai necessario per spostare in avanti l’agenda politica di un nodo chiave per tutto il Medio Oriente e che, a un anno dal settantesimo anniversario della fondazione di Israele, ha urgenza di essere risolto, non solo per chi vive ogni giorno sulla propria pelle la paura per le violenze o la privazione di diritti, ma anche per chi vive da profugo da quattro generazioni e merita di riuscire un giorno a scrivere, tornando a casa, l’ultima riga di una narrazione in cui troppe volte il sangue si è sostituito all’inchiostro.