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I neet italiani sono un’anomalia

Chi non studia e non lavora in Italia è spesso più istruito rispetto a chi nel resto d’Europa è nella stessa condizione. Questa differenza ha lati positivi e negativi, ma rende ancora più difficile capire cosa fare

 In Italia ci sono 2,2 milioni di giovani che non studiano e non lavorano: sono i cosiddetti neet, un termine preso in prestito dall’inglese ed entrato presto nel lessico di chi si occupa del mercato del lavoro nel nostro Paese. Secondo l’edizione 2017 dell’Employment and Social Developments in Europe review, pubblicata dalla Commissione europea, la percentuale di neet nel nostro tessuto sociale è pari al 19,9%, molto superiore all’11,5% della media europea. Questo dato significa che una persona su 5 tra i 15 e i 24 anni non ha alcun tipo di accesso regolare al mercato del lavoro, contribuendo a comporre quell’ampia quota di popolazione di giovani disoccupati e precari che sembrano sempre più la regola e non l’eccezione.

Ad aggravare la situazione italiana è la distanza dalla tendenza europea, che fotografa un generale miglioramento. Nel nostro caso, infatti, è difficile vedere una tendenza positiva, nonostante il tentativo, attraverso il programma Garanzia Giovani del 2014, di affrontare la questione in modo diretto. Il fatto, secondo Francesco Giubileo, esperto in politiche attive del lavoro e consulente di Confartigianato, è che quella dei neet «è sicuramente una questione strutturale, legata a caratteristiche proprie del nostro mercato del lavoro, quindi non può essere risolta nel breve periodo».

Chi compone questa categoria, che non è soltanto statistica?

«Il quadro è estremamente eterogeneo: sicuramente i giovani, ma anche le donne, specialmente nel sud, che non sono mai entrate nel mercato del lavoro perché ancora di fatto mai inserite, oppure inserite nel lavoro sommerso. Abbiamo poi un problema legato a un confronto, anche internazionale, delle caratteristiche che hanno i nostri neet rispetto a quelli degli altri paesi, ovvero il fatto che molti di loro sono anche istruiti. Ecco, questa anomalia, sotto alcuni punti di vista, è più preoccupante: non hanno bisogno di competenze, ma di lavoro».

La situazione italiana, con le sue anomalie, va analizzata soltanto in termini di mercato del lavoro o è necessario ragionare anche sulla società in senso più ampio?

«Sicuramente è presente nel contesto nazionale italiano un problema abbastanza evidente di dipendenza, da parte dei giovani e soprattutto dei neet, dall'assistenza da parte dei propri familiari. Questo lo si comprende anche osservando un’altra anomalia: l'Italia presenta un elevato numero di neet, ma non una situazione di depressione, povertà, abbandono, sfogo nelle dinamiche più traumatiche della sicurezza urbana nei più giovani. Se da una parte sembra un fatto positivo, dall'altra sembra si sia creata una specie di droga: i giovani trovano nel sostegno della famiglia una dipendenza che non spinge alla ricerca vera e concreta di un'attività lavorativa. Chi è in casa, gode della tutela della famiglia fino a quando arriverà il “posto giusto”. Il problema, però, è che temo che il posto giusto nel mercato di oggi non arriverà mai».

I neet, con le loro anomalie e specificità, sono oggetto di politiche specifiche?

«Sicuramente il tentativo di Garanzia Giovani era nato proprio con l’intento di favorire l'inserimento nel mercato del lavoro di queste figure. Devo però dire che se c'è riuscito, l'ha fatto solo in piccola parte. Forse il motivo va cercato nell’assenza di una politica che secondo l’istituto di ricerca tedesco Iza è una tra le migliori possibili, ovvero il finanziamento e l'incentivazione alla mobilità occupazionale».

Che cosa significa? Favorire lo spostamento verso altri Paesi europei?

«No, non bisogna confondere la mobilità occupazionale con il fenomeno che chiamiamo “fuga dei cervelli”. A parte il fatto che non tutte le persone che vanno all'estero partendo dall’Italia vanno a fare delle ricerche per progetti milionari, ma in molti casi vanno per fare lavori comuni, la questione della mobilità occupazionale va letta anche come un fenomeno interno. Secondo l’analisi dell’Iza sulla mobilità, infatti, a favorire l'occupazione è anche il moto dalla periferia verso il centro. Questo significa favorire l’accesso ai grandi centri urbani italiani, dove in teoria dovrebbe esserci un po' più di lavoro, a molte persone che stanno in periferia. Al momento questa sembra la migliore politica che si possa applicare per incentivare l'occupazione dei giovani in Italia».

È presente un piano del genere nell’agenda politica italiana?

«Nella nuova programmazione di Garanzia Giovani, se sarà confermata, è previsto un programma ad hoc legato alla mobilità occupazionale, che in teoria dovrebbe favorire le persone che si spostano attraverso una serie di sostegni economici per l'affitto della casa e per il primo mantenimento temporaneo fino a che non si diventa indipendenti. Tuttavia, lo dico chiaramente, sono risorse insufficienti. Il programma strutturato di mobilità occupazionale deve rientrare in un progetto politico molto ampio: bisogna essere consapevoli della scelta di mettere nel piatto una grande quantità di risorse economiche».

Immagine: di Hamza Butt, via Flickr