Mentre le chiese deplorano le ingiustizie contro le donne, alcune fra esse perpetuano diseguaglianze di genere negando l’ordinazione femminile.
«Vincere la violenza di genere è una delle sfide più grandi che esistano» ha affermato Dorcas Gordon, direttrice del John Knox College di Toronto in Canada, durante la sessione intitolata proprio “Giustizia di genere” del Consiglio generale della Comunione mondiale di chiese riformate (Wcrc) in corso in questi giorni in Germania fra Lispia, Berlino e Wittenberg .
La maggior parte delle chiese membro della Wcrc approva l’ordinazione femminile, ma 7 in Europa, 18 in Africa, 3 in Medio Oriente, 9 in Asia e 9 anche in America latina ancora non permettono l’accesso di una donna al pulpito.
Uno studio condotto in materia rivela che alla base del diniego non vi sono questioni teologiche, ma culturali. Si tratta di società che faticano a riconoscere ruoli di leadership alle donne, ma anche di paesi in cui le chiese in questione operano in una condizione di minoranza di fronte ad una predominanza cattolica o ortodossa, con un conseguente clima derivante da una certa pressione “ecumenica” volta ad evitare iniziative che sarebbero definite scioccanti dalla maggior parte della popolazione, o dai loro rappresentanti ecclesiastici.
Così le chiese condannano l’ingiustizia contro le donne, ma in qualche maniera la perpetuano.
Di fronte a questo paradosso le 233 chiese membro della Comunione mondiale di chiese riformate sono chiamate dal Consiglio generale non solo a sostenere l’ordinazione femminile dunque, ma anche a garantire eguale dignità, anche economica, alle donne.
Per convincere e motivare i delegati, sabato 1 luglio a Lipsia si sono tenute varie sessioni di lavoro basate sulle testimonianze di donne che affrontano a vari livelli i disequilibri di genere, e si sono analizzati testi biblici che evidenziano l’uguaglianza delle donne e degli uomini davanti a Dio.
La teologa femminista Elsa Tamez ha proposto un’esegesi deli primi versetti del capitolo 12 della Lettera ai Romani. Nel passaggio citato l’apostolo Paolo invoca una trasformazione permanente e profonda delle comunità che la teologa ha così commentato: «i Cristiani devono fornire l’esempio. Dobbiamo sapere che esiste un modo di vivere differente da coloro che sono governati dall’invidia, dall’avidità e dalla rivalità personale».
Oggi 3 luglio i delegati sono chiamati a votare un testo, la “Dichiarazione di fede sull’ordinazione femminile”, che riassume i concetti espressi sopra e impegna il Consiglio esecutivo ad aprire uno spazio di dialogo e incontro con le chiese membro che ancora non consentono la creazione di donne pastore affinché al prossimo meeting generale che si terrà nel 2024 siano fatti significativi passi avanti in tal senso.
Lo stesso presidente della Wcrc, il pastore Jerry Pillay, è intervenuto sul tema per ricordare che «la sessualità umana e l’ordinazione delle donne continuano a dividere anche la famiglia riformata. Una consultazione ad hoc verrà avviata dopo il Consiglio per esplorare come preservare unità e giustizia di fronte alle sfide della sessualità. E’ una strada da percorrere se vogliamo restare fedeli a ciò in cui crediamo in quanto Comunione.
Isabel Apawo Phiri teologa e vice-segretaria del Cec, il Consiglio ecumenico delle chiese, proveniente dal Malawi, ha a sua volta sottolineato come «l’oppressione di genere permea tutti i settori della vita pubblica e privata e interagisce con altre forme di oppressione come quelle legate alla classe, alla razza, all’etnia, all’età o all’orientamento sessuale, creando un mix tremendo e difficile da eliminare. Le difficoltà nell’avere un dialogo su questi temi, anche all’interno delle chiese, è sintomatica. La violenza fisica o qualsiasi altra violenza sono una forma di potere e controllo. Il vangelo ci parla di inclusività e noi non stiamo facendo abbastanza per fermare violenze e uccisioni di persone solo per il loro orientamento sessuale. E’ il tempo di dire basta a tutto questo. Poche donne hanno ruoli di leadership, anche all’interno del nostro mondo. I dirigenti delle chiese devono usare la loro autorità per pronunciarsi contro ogni forma di ingiustizia, a partire da quelle al proprio interno. In primis andrebbe ripensato il linguaggio con cui comunichiamo, dominato da termini maschili. Uno sforzo culturale che dove manca va stimolato dagli esecutivi delle chiese membro».
Parole forti, impegni precisi su un tema al centro dei ragionamenti del mondo evangelico e riformato, se è vero che anche l’Assemblea della Federazione luterana mondiale che si è svolta a maggio in Namibia ha dedicato ampio spazio al dibattito sull’uguaglianza di genere, arrivando ad approvare un documento che così recita: «Riconosciamo che vari membri di chiesa hanno parlato contro la violenza di genere. Ma sappiamo anche che sul tema ci sono seri problemi, non solo nelle nostre società, ma dentro le nostre stesse chiese. Conosciamo e sperimentiamo abusi all’interno delle nostre chiese. Clero maschile abusa del clero femminile, maschi nelle congregazioni abusano di donne e ragazze nelle chiese, e a volte i leader di queste chiese rifiutano di riconoscere il problema. Molestie e violenze devono essere bandite dalle nostre chiese, da tutte le chiese. Gli esseri umani non sono in vendita, un incarico non può essere ottenuto solo dietro favori sessuali. Le tradizioni consolidate nei secoli e financo la teologia vengono utilizzate per frenare il processo di parità fra i sessi, per stoppare la voce delle donne. Condanniamo tutto ciò perché la chiesa deve esser luogo di pace, a partire dai propri vertici, che devono essere formati per riconoscere le violenze e capaci di dire basta alle violenze di genere».
Un testo forte, senza rischio di fraintendimenti che si apre con una citazione del testo di Martin Lutero “La cattività babilonese della chiesa”: «Siamo tutti sacerdoti, i sacerdoti sono ministri scelti fra noi e tutto ciò che fanno lo fanno in nostro nome».
Il mondo riformato ha molto da mostrare in materia al resto del panorama religioso. Ma una sana riflessione sulle contraddizioni ancora in essere al suo interno e nelle nostre società non può che essere utile per vincere le sfide che ancora esistono. E che sono molte.