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La Riforma, cominciata 500 anni fa a Wittenberg e declinata in numerose forme, non va letta soltanto come un fatto storico, ma come un percorso continuo, che non ha ancora esaurito la sua spinta. Oggi la Riforma vive una fase intensa soprattutto nei Paesi che definiamo “in via di sviluppo” e che è oggetto di discussione a molti livelli.

In particolare, il mondo cristiano negli ultimi anni si è interrogato sul rapporto tra Riforma, educazione e trasformazione della società, tre termini che segnano un processo non lineare dal quale non ci si può sottrarre. A São Leopoldo, in Brasile, nel 2015, e a Halle, in Germania, presso l’Università "Martin Lutero" di Halle-Wittenberg, l’anno scorso, è emersa una definizione sempre più precisa del concetto di “Terza Riforma”. Ma che cosa significa? È una definizione che proviene soprattutto dal mondo protestante africano, dove si ritiene che ci sia stata una “prima” Riforma, quella avviata da Lutero nel 1517, quindi una “seconda” quando cominciarono a nascere le chiese indipendenti, mentre quella di oggi è un Riforma che costituisce un fatto e un atto pubblico, e in diversi luoghi sta diventando carismatica anche presso i Protestanti storici.

Durante il Kirchentag 2017, che si è svolto a Berlino e Wittenberg da mercoledì 24 a domenica 28 maggio, il tema è stato messo al centro di un incontro dal titolo One World? Ecumenical Voices on the Third Reformation, durante il quale sono stati sette gli studiosi che hanno partecipato.

Moderati da Heike Walz, docente di Teologia Interculturale e studi religiosi all’Università Augustana di Neuendettelsau, in Baviera, e da Dietrich Werner, consulente teologico dell’associazione Bread for the World a Berlino, gli interventi si sono divisi in tre sezioni, ripercorrendo i tre termini-chiave della questione.

«L’educazione sul modello portato dai protestanti – ha spiegato Daniel Jeyaraj, direttore dell’Andrew Walls Centre for the Study of African and Asian Christianity di Liverpool – ha portato il concetto di dignità, un’idea che è stata ed è rivoluzionaria nel contesto indiano». La dimensione supera quella territoriale e raggiunge una tra le più grandi sfide contemporanee, trasformata in domanda: come l’educazione ha trasformato il ruolo delle donne nelle diverse società, tanto in Asia quanto in Africa? «Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento – racconta Theresa Carino, consulente politica presso la Amity Foundation di Nanchino, in Cina – le Chiese in Cina hanno contribuito all’evoluzione e alla modernizzazione del Paese. Ci furono moltissime donne missionarie, al punto che negli anni Dieci del Novecento le donne costituivano il 60% di tutti i missionari in Asia. Le scuole femminili minarono alla base alcune pratiche tradizionali, come la schiavitù e il concubinato, ma anche il cosiddetto “Loto d’oro”, il fasciare i piedi delle donne compromettendone per sempre la salute. Tuttavia, tra i vertici politici si sviluppò la sensazione che un cristiano in più potesse diventare un cinese in meno». Questa ostilità in termini di potere ha creato nei decenni uno squilibrio tra la sfera sociale e quella politica. «L’introduzione dell’educazione per le donne – prosegue Carino – le ha rese più forti e più libere, anche se sono sempre state invisibili. Oggi però le cose stanno cambiando: ci sono più donne che uomini nei seminari e ci sono molte donne pastore. È un lavoro duro, marginalizzato e impoverito, ma che viene svolto con la consapevolezza che agli occhi di Dio siamo tutti uguali». In realtà la questione è più ampia: «la compassione è diventata più visibile nella società cinese e i principi del Cristianesimo sono ogni giorno più accettati. Questo fa sì che i cristiani in Cina siano diventati visibili».

Nel contesto africano, non è soltanto l’opposizione politica a frenare la parità di genere. Esther Mombo, docente di storia delle chiese a Limuru, in Kenya, racconta la storia della sua famiglia portandola come esempio di un percorso difficile. «Sono una cristiana di terza generazione. Mia nonna, infatti, mi ha raccontato come divenne cristiana, ed è una storia che mi guida da sempre. I cristiani avevano aperto una scuola e un ospedale nella zona in cui viveva. Lei era molto interessata ad andare a scuola, ma i suoi fratelli glielo avevano impedito, dicendo che avrebbe fatto meglio a comportarsi da buona figlia e buona moglie. Lei fuggì da casa e imparò a leggere e scrivere, capacità che utilizzò poi nel suo lavoro al servizio della chiesa. Con la nascita di una comunità, lei divenne pastora, predicatrice e in qualche modo anche loro profeta. Durante il suo ministero visitò i malati e le persone in prigione e prendendosi cura dei bisogni della società. Quell’esempio non ha ispirato soltanto me: ci sono più donne che studiano teologia, ma l’educazione da sola non ha garantito la visibilità delle donne, in particolare nel campo della leadership». Il percorso però non si è interrotto. «Quando penso al rapporto tra Riforma e trasformazione – prosegue Mombo – vedo educazione che crea e rafforza chi sta ai margini della società e chi è escluso dal potere. Vedo educazione che crea comunità impegnate a produrre nuove storie, storie di redenzione contro la crescente intolleranza, storie che sfidano la paura degli altri e che ci conducono verso la creazione di un mondo unito. È questo che mia nonna pensava fosse la creazione di una educazione, e questa è oggi la continuazione della Riforma».

Ancora più complessa è la situazione quando ci si sposta verso il Pacifico. La teologa Seforosa Carroll, docente alla Charles Sturt University di Sydney, in Australia, e originaria delle Fiji, spiega che «nel contesto del Pacifico è difficile separare il colonialismo e il cristianesimo. Con la decolonizzazione è stato necessario recuperare l’esperienza cristiana come Parola di Dio e non come fatto culturale e politico. Stiamo parlando di un contesto sociale estremo in almeno due campi. Prima di tutto la violenza di genere: il 70% delle donne prima di 15 anni ha vissuto problemi legati al proprio genere, e su questo stiamo cercando di capire come ripartire dalle Scritture per affrontare il problema. L’altro tema centrale è il cambiamento climatico: le isole sono destinate a inabissarsi nel giro di 15–20 anni. Questo sta portando a un senso di disimpegno, di inesorabilità del disastro. Per questo è fondamentale da un lato guardarci indietro, per fare in modo che l’epistemologia indigena sia valida anche per gli altri, ma anche in avanti: il nostro è un viaggio alla ricerca dei principi-chiave della Riforma e della parola di Dio per integrarla nelle sfide e nei problemi di oggi».

Le parole di «La terra santa è globale», conclude Jeyaraj, perché, aggiunge Carino, «non ci devono essere confini alla responsabilità sociale dei cristiani».

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