Eutanasia e suicidio assistito non sono la stessa cosa
06 novembre 2014
Il caso di Brittany Maynard, 29enne che ha scelto di porre fine alla sua vita, riapre il dibattito sul fine vita
«La morte con dignità è una scelta che ogni persona merita per ridurre la sofferenza e per morire in comfort e controllo» scriveva Brittany Maynard sul proprio sito. Molti quotidiani parlano della scelta della 29 enne statunitense che ha deciso di morire per porre fine alle sofferenze provocate da un cancro al cervello. Si riapre il dibattito sul fine vita, eutanasia, suicidio assistito. Che cos’è la morte con dignità? Abbiamo commentato le notizie e il tema con Luca Savarino, professore di Bioetica all’Università del Piemonte orientale e Coordinatore della commissione Bioetica della Tavola Valdese.
Perché si è parlato più di questo caso, rispetto ad altri?
«Lei ha voluto rendere pubblica la sua scelta di fine vita e questo ha contribuito, per alcuni nel bene, per altri nel male, a rendere oggetto di discussione una scelta personale, che nella prassi corrente medica può essere più o meno diffusa e legale, ma che non è una scelta molto frequente, per quanto legittima».
Parlando di informazione, per lo stesso caso si è usato sia il termine eutanasia, sia suicidio, sia suicidio assistito. Quale è più adeguato?
«Il termine eutanasia per questo caso non è assolutamente adeguato, il termine giusto è suicidio assistito. Per il senso comune può non esserci differenza, ma dal punto di vista sia morale, sia giuridico c’è una grande differenza. L’eutanasia è una pratica in cui un soggetto terzo, un medico, per motivi legati al desiderio di terminare la sofferenza, aiuta qualcuno a morire su richiesta del paziente. Il suicidio assistito è diverso: una persona chiede di essere assistita nel momento in cui pone autonomamente fine alla propria vita. In questo caso il medico si limita a prescrivere una dose di farmaco letale. Non c’è il rapporto diretto negli ultimi momenti del paziente. Dal punto di vista etico ha una fattispecie diversa, perché la cooperazione del medico è indiretta e l’autonomia del paziente è più forte».
Brittany Maynard si è trasferita in Oregon, e molti Italiani si spostano in Svizzera per poter scegliere di essere assistiti nel suicidio.
«Nel nostro paese la pratica del suicidio assistito e dell’eutanasia ovviamente sono proibite. Ma nulla vieta che una persona possa decidere di andare in Svizzera. Sulla legge sul suicidio assistito, la mia opinione è negativa riguardo alla pratica, ma sono favorevole ad una legge come quella in vigore nei Paesi Bassi sull’eutanasia. La questione è relativa ai criteri medici di accesso: il principio per cui uno Stato possa autorizzare le persone a porre fine alla propria vita è un principio di beneficenza legato ad una diagnosi medica di sofferenza fisica o psichica insopportabile; in assenza di questi criteri, come in Svizzera, dove il 25 % delle persone che accedono al suicidio assistito non sono affette da nessuna patologia, credo venga a mancare quel principio di beneficenza che rende a mio parere legittima una legge sul fine vita».
Si parla di dignità nel fine vita, cosa pensa?
«Continuo ad avere le idee confuse sulla morte con dignità. Non so bene cosa si intenda esattamente: credo si parli di coloro che non vogliono morire in una condizione di afflizione fisica o di non autonomia. Alcuni però dicono anche che non è dignitosa la morte che passa attraverso il suicidio, e questo non lo comprendo. Per un laico dal punto di vista morale porre fine alla propria vita non pone grandi problemi etici, e per un cristiano il suicidio è una scelta che in determinate circostanze può essere ammissibile e non particolarmente riprovevole: è affidato alla coscienza individuale, affidato al nostro rapporto con Dio dove non si dovrebbe andare a sindacare. Dal punto di vista legale è importante la scelta autonoma del soggetto, e dall’altra determinare le norme che lo Stato deve porre per l’accesso a quelle pratiche. Per evitare l’abuso, personalmente credo che occorra accertare una condizione di sofferenza estrema per accedere a queste pratiche. Non capisco la posizione di chi dice che morire così non è dignitoso: per ogni individuo la dignità risiede nella scelta».
Influenza della cattolica romana è spesso tirata in ballo, ma è solo questo il motivo per cui il dibattito è debole in Italia?
«Il fatto che siamo un paese cattolico può essere un problema per il fatto che non si riesce a fare una discussione seria. Nel dibattito, il problema è quando suicidio assistito ed eutanasia diventano la stessa cosa, quando si pensa che queste pratiche abbiano la stessa rilevanza giuridica, quando si confonde la sospensione di trattamenti con l’eutanasia: questo tipo di equivoci diffusi che riguardano il finevita, sono esattamente il prodotto di una situazione in cui il dibattito non è vivo. Di questo mi sentirei di incolpare la classe politica, su questo deficitaria, e le gerarchie cattoliche, più che il mondo cattolico. Tra l’altro, spesso i politici italiani pensano di dover essere acquiescenti a un idea della Chiesa Cattolica, che per lo più hanno loro stessi, e pensano che dal punto di vista politico sia premiante. Sulla legislazione servirà un ampio dibattito parlamentare».
Un altro motivo può essere che non siamo abituati a parlare della morte?
«Si, il tema della morte è in parte tabù, viene negato, ricompare sotto forma di altre strane manifestazioni sociali. Una società può discutere di queste questioni in maniera corrispondente al grado di maturità dei suoi cittadini e della propria classe politica. In Italia spesso prevale un atteggiamento caritatevole in cui si preferisce non discutere pubblicamente dei problemi, per poi eventualmente essere accondiscendenti nella pratica: una pratica caratteristica della mentalità italiana».