Sono trascorsi oltre cinque mesi dall’inizio dell’assedio di Mosul, in Iraq, la città più grande tra quelle occupate dal Daesh durante la sua avanzata nel 2014. Dall’ottobre del 2016, infatti, una coalizione formata dall’esercito iracheno, il governo regionale del Kurdistan e alcune forze internazionali, tra cui gli Stati Uniti, sta stringendo sempre di più il cerchio intorno alle aree ancora controllate dal gruppo Stato islamico, che si concentrano soprattutto nell’area ovest della città.
Il mese di marzo ha portato con sé nuovi bombardamenti, compreso uno, condotto dall’aviazione statunitense, che ha causato la morte di oltre 200 civili e che è stato riconosciuto dal Pentagono, dopo giorni di esitazione, come un errore. Azioni come questa fanno molto rumore, ma sono soltanto la parte più visibile di un’emergenza umanitaria che si estende ben oltre i confini cittadini. «C’è un drastico aumento degli sfollati e dei movimenti di persone – racconta infatti Giulia Cappellazzi, Capomissione in Iraq per l’organizzazione umanitaria Un ponte per… – che sono costrette di fatto ad abbandonare le loro case, le loro comunità, le loro città, perché sono costrette a cercare la salvezza altrove».
A poco meno di 180 giorni dall’inizio di un assedio che non si preannunciava breve e che, forse anche per quello, era stato rinviato più volte tra il 2015 e il 2016, il principale risultato sembra essere quello di nuovi bisogni per la popolazione civile, ormai al limite delle proprie risorse dopo 13 anni di conflitti seguiti a 24 anni di dittatura. «Per dare un’idea di quelli che sono i numeri e la gravità della situazione – continua Cappellazzi – , ai 3 milioni di sfollati presenti all’interno dell’Iraq prima dell’attuale battaglia, iniziata a ottobre dello scorso anno, si aggiunge adesso un altro milione di persone che ha un disperato bisogno di assistenza e di supporto, quindi se si pensa che questo è il numero delle persone che sono vittime dell’attuale guerra credo che sia una situazione abbastanza drammatica». Per dare un senso delle proporzioni, un milione di sfollati sono pari a tutte le persone che sono arrivate in Europa tra l’inizio del 2015 e l’attuale periodo, quindi in due anni e mezzo, più degli abitanti della città di Torino.
Il Kurdistan iracheno ha le risorse e gli strumenti per reggere a questa reale emergenza?
«Questa zona ha risposto a questa emergenza umanitaria aprendo le porte e mettendo a disposizione terre per la costruzione di campi emergenziali e dando la possibilità di aprire i propri servizi alle persone che avevano bisogno di essere assistite. Il problema però è che oggi il Kurdistan iracheno sta vivendo un momento molto delicato di crisi economica, e questo fa sì che i servizi ne risentano pesantemente. Se aggiungiamo a questa situazione già critica di per sé la presenza dei numeri di persone di cui si parlava prima, con milioni di sfollati interni iracheni e anche rifugiati siriani che sono dovuti fuggire dalla Siria per la guerra ancora in corso, vediamo un pesante ridimensionamento della capacità del territorio di riuscire a rispondere ai bisogni di rifugiati e sfollati e anche di quelle che vengono chiamate “comunità ospitanti”, vale a dire a tutti coloro che risiedono all’interno del Kurdistan iracheno».
Di che tipo di interventi hanno bisogno queste persone?
«C’è una grande differenza tra chi era già qui e chi è arrivato all’inizio delle operazioni militari per la liberazione della piana di Ninive dalla presenza di Daesh: questi ultimi hanno un bisogno di assistenza che è quasi totale, mancano veramente i servizi base, manca spesso e volentieri la possibilità di avere accesso anche solo al cibo e all’acqua, e quindi la risposta dev’essere concreta e immediata. Da diversi anni l’Ufficio Otto per mille della Tavola valdese ci sostiene nella risposta all’emergenza. Anche nell’attuale crisi abbiamo avuto la possibilità di aiutare diverse famiglie proprio grazie a questo supporto: per esempio, siamo stati la prima organizzazione a raggiungere uno dei primi villaggi liberati in cui oltre 200 famiglie avevano bisogno di supporto di base, siamo riusciti a fornire loro dei set da cucina dopo aver identificato che questo era il bisogno primario e la richiesta da parte delle famiglie, e kit igienici sanitari per diverse persone».
Quindi è possibile intervenire soltanto a questo livello?
«No, perché a quella che è una primissima risposta, che può essere tradotta nel fornire acqua, cibo o kit igienici, occorre anche affiancare un intervento nel medio e nel lungo termine, per esempio con un supporto psicosociale, un’azione che Un ponte per... intraprende da anni. Non va dimenticato che queste persone, chi più chi meno e in diverso modo, sono state sicuramente esposte a violenza e hanno traumi e ferite molto profonde su cui bisogna lavorare».
Lo scorso anno abbiamo parlato del progetto Ninive Paths, che lavora sull’inclusione civile e sulla costruzione di una società attiva, andando oltre l’assistenza. Sugli ultimi arrivati si ragiona anche in questo senso, per fornire una dimensione civica alla loro presenza sul territorio?
«Il lavoro da fare con le persone che hanno recentemente subito uno sfollamento è molto lungo e delicato: purtroppo in questo momento, vista la provenienza delle persone recentemente sfollate, che arrivano dalla piana di Ninive e dalla città di Mosul, ci sono alcuni episodi di stigmatizzazione e discriminazione, perché in alcuni casi si pensa che tali persone siano necessariamente affiliate a Daesh. Naturalmente non è vero, ma questo ci dice che è necessario intraprendere un lavoro lungo, costante e delicato, fatto di azioni che vanno a coinvolgere la costruzione della pace, il dialogo, la coesione sociale. Un giorno si arriverà a parlare di riconciliazione, e questo ci porterà verso azioni comuni in seno alla società civile, un approccio che ci sta molto a cuore, su cui lavoriamo da oltre 26 anni. La popolazione irachena si trova a far parte di un momento di transizione complesso che richiede grandi sforzi, su cui in parte stiamo già lavorando».
Alla fine di questa guerra potremo ancora parlare di Iraq o dobbiamo sin da subito ragionare su entità separate più piccole?
«Al momento quello che abbiamo di fronte a noi è uno scenario in cui la diversità che ha sempre caratterizzato l’Iraq e che l’ha reso uno dei Paesi più ricchi a livello di cultura e culture, religiose ed etniche, al momento viene percepita come un elemento di divisione, che allontana le persone. Ci auguriamo che gli iracheni riescano di nuovo a capire quale sia in realtà il valore di questa diversità e a lavorare per riuscire a valorizzarla, ma dipenderà anche da processi di transizione a cui assisteremo tra qualche mese e anche dalla possibilità che le organizzazioni e le società civile irachena stessa avranno a livello di opportunità di dialogo e di confronto. In una situazione così delicata, in cui le persone hanno sofferto così tanto, un primo passo dev’essere il lavoro sui traumi che le persone hanno vissuto e sperimentato. Riusciremo a lavorare su temi come quello della coesione sociale solo nel momento in cui le persone verranno accompagnate in un processo di elaborazione del trauma, di supporto a livello psicologico anche per un reinserimento all’interno della società».