Il 25 marzo del 2015, 150.000 soldati e 100 aerei dell'aviazione saudita entravano nel territorio dello Yemen per colpire le postazioni dei ribelli Houthi con lo scopo di fermarne l’avanzata e reinsediare il presidente deposto Abd Rabbih Mansour Hadi. Con questa azione comincia in modo aperto ed esplicito la guerra che da due anni sta spaccando il più povero tra i Paesi della Penisola araba.
La coalizione guidata dall’Arabia Saudita, di cui fanno parte quasi tutti i Paesi del Golfo tranne l’Oman, oltre a Egitto, Sudan, Marocco e Giordania, aveva impiegato pochi giorni ad acquisire il totale controllo dello spazio aereo yemenita e a distruggere le attrezzature militari dei ribelli, ma da allora la situazione sembra essersi fermata, lasciando spazio a una guerra logorante e dalla quale non sembra si possa uscire.
Il conflitto in Yemen è senza dubbio la guerra del re saudita Salman bin Abdul-Aziz Al Saud. Quando è cominciato l’intervento armato, infatti, Salman era appena salito al trono e aveva appena affidato la guida del ministero della Difesa a suo figlio, il principe Mohammed bin Salman. In quella fase i ribelli Houthi avevano cacciato Hadi dalla capitale Sana’a e sembrava che fossero lanciati verso la conquista dell’intero Paese.
Il presidente Hadi era fuggito in esilio a Riyad e il re saudita, appena insediato, temeva che mancasse poco all’instaurazione di uno Stato fantoccio in mano iraniana, con il rischio di ritrovarsi sul confine più vulnerabile 27 milioni di yemeniti pronti a chiedere una più equa redistribuzione della ricchezza nella Penisola araba.
Nel momento in cui gli Houthi annunciarono la volontà di rafforzare gli scambi con l’Iran, al punto da aprire voli commerciali diretti da Sana’a a Teheran, il governo saudita decise di agire per riportare Hadi al potere. Tuttavia, quella che doveva essere un’operazione rapida e priva di conseguenze, aveva già mostrato sin dall’inizio la propria debolezza: due tra i Paesi che dovevano essere partner annunciati dell’operazione decisero di sfilarsi. L’Oman chiarì subito che non avrebbe partecipato, e il parlamento del Pakistan addirittura votò all’unanimità contro l’intervento.
Nel giro di pochi giorni le truppe della coalizione a guida saudita riuscirono a impedire ai ribelli di conquistare Aden, e dopo alcuni mesi il governo di Hadi venne ristabilito in gran parte di quello che fino al 1990 era lo Yemen del sud, anche se il suo controllo è debole fuori dalla città di Aden, e anche se il portavoce di Hadi annuncia con grande frequenza che la vittoria è vicina e che la riconquista di Sana’a arriverà entro al fine del mese, lo scenario sembra molto diverso.
A distanza di due anni, infatti, è piuttosto evidente che l’Arabia Saudita non ha nessun piano per una vittoria completa, né una chiara strategia per arrivare almeno alla fine del conflitto.
Anche se i sauditi dovessero riconquistare Sana’a, ci si troverebbe di fronte all’enorme difficoltà di normalizzare i rapporti con i ribelli Houthi, con cui Riyad si scontra sin dal 2004 per motivi che sarebbe troppo facile ricondurre alla diversa appartenenza religiosa.
Suona ironico che un’operazione chiamata Decisive Storm, “tempesta decisiva”, sia in realtà così traballante e indefinita, al punto che il giovane ministro della Difesa, che due anni fa era il volto pubblico della campagna militare, oggi si occupi dei piani per la trasformazione economica del regno saudita con l’orizzonte del 2030.
A differenza dell’attuale re, tutti i suoi predecessori sin dal 1953 avevano sempre evitato di impegnarsi in una guerra lunga e dall’esito incerto, temendo che lo Yemen potesse rivelarsi una palude dalla quale sarebbe stato difficile uscire, una previsione che si è rivelata corretta.
Nonostante il grande impegno politico, militare ed economico messo in campo dall’Arabia Saudita, la situazione non si è più evoluta, e a nulla sembra servire anche il grande appoggio internazionale, che si è tradotto anche nella fornitura di armi da parte delle principali aziende occidentali, contravvenendo indirettamente alle più importanti regole del commercio mondiale nel campo della difesa. Questa situazione non fa che favorire l’Iran, proprio il nemico contro cui Riyad aveva deciso di impegnarsi direttamente: il supporto di Teheran agli Houthi, infatti, è molto limitato nei fatti, ma ha dato agli ayatollah grandi vantaggi in termini di propaganda. Per motivi storici e geografici, quello in Yemen è un conflitto fondamentale per Riyad ma marginale per Teheran, che riuscendo a trascinare l’Arabia Saudita nella palude ha già ottenuto un risultato in linea con le proprie aspettative.
Tuttavia, i 27 milioni di abitanti dello Yemen si trovano al centro di questo gioco geopolitico con una sola prospettiva, quella di essere vittime della guerra. La popolazione yemenita era la più povera nel mondo arabo già prima del conflitto. Ora nel Paese, secondo Unicef, a causa della malnutrizione ogni 10 minuti un bambino muore e molti altri avranno danni permanenti dovuti alla carenza di cibo e alle pessime condizioni sanitarie, peggiorate dai bombardamenti di numerosi ospedali gestiti dalla cooperazione internazionale.
Le Nazioni Unite hanno cercato di raggiungere un cessate-il-fuoco di lunga durata per poter poi avviare un processo politico di pacificazione, ma le linee guida fornite dal Consiglio di sicurezza all’inizio della guerra erano troppo favorevoli all’Arabia Saudita per essere realmente applicabili. Nessuna delle parti in causa in Yemen ha mai mostrato una vera volontà di raggiungere un compromesso, e difficilmente i sauditi avranno in questo momento la forza di sostituire tutti i vertici politici del Paese per ripartire da zero. Insomma, anche la diplomazia, come la guerra, è in una fase di stallo senza uscita.
Tuttavia, c’è chi da questa guerra ha ottenuto soltanto vantaggi: Al-Qaeda. Data per spacciata fin troppe volte, l’organizzazione terroristica ha saputo sfruttare il conflitto in Yemen per rilanciare la sua azione. Al-Qaeda nella Penisola Araba si è avvantaggiata del caos e ha saputo mettere sotto il proprio controllo gli ampi spazi non governati del Paese, cavalcando inoltre la rabbia degli yemeniti, diventati potenziali reclute per azioni più ambiziose.
Il costo umano e umanitario di questo conflitto non si può quantificare, ma una cosa è certa: la sua eredità umana e politica sarà ampia, dolorosa e a lungo termine.