È una donna cattolica di nome Michelle O'Neill la vincitrice morale delle elezioni in Nord Irlanda: una tornata elettorale che ha registrato la più alta affluenza dal 1998 (64,8%), in un paese dove soltanto dieci mesi fa aveva votato il 54,9% degli aventi diritto. Succeduta appena quarantenne all’ex comandante dell’Ira Martin McGuinnes, O’Neill è la prima leader dello Sinn Féin a non aver preso parte alla lotta armata che insanguinò i «The Troubles»; un volto diverso che forse anche per questo ha condotto il partito repubblicano ad un risultato storico. In numeri assoluti, oggi 1200 voti separano il «cattolico» Sinn Féinn dal Democratic Unionist Party (Dup), il principale partito «protestante», da sempre maggioranza e da sempre sostenitore della permanenza del Nord Irlanda nel Regno Unito. Un pareggio sfiorato che modifica i rapporti di forza dello Stormont (l'assemblea parlamentare nordirlandese), dove il 27,9% del Sinn Féin si tradurrà in 27 seggi: uno soltanto in meno del Dup, che in percentuale è sceso al 28,1%.
Di fatto, nel nuovo Parlamento, la posizione unionista-conservatrice sarà per la prima volta in minoranza, perché il Dup e l’Uup, entrambi in calo, detengono meno seggi del repubblicano Sinn Féin e del labourista SDLP, i due partiti «nazionalisti» che vogliono che l’Irlanda del Nord rimanga nell’Unione europea. Innescate da uno scandalo che ha coinvolto l’ex prima ministra Arlene Foster, il vero retroterra della crisi di governo che ha portato a elezioni anticipate è infatti il quadro disegnato dalla Brexit: nel giugno scorso il 56% dei cittadini dell’Irlanda del Nord ha votato per rimanere nell’UE – una preferenza trasversale alle confessioni religiose –, ma la sua appartenenza al Regno Unito condurrà comunque il paese fuori dall’Europa, risuscitando una frontiera fisica e simbolica tra «un’Irlanda cattolica europea» e «un’Irlanda britannica e protestante». La grande partecipazione al voto – anzitutto dei giovani – ed il successo del fronte nazionalista sono senza dubbio un segnale a tutti gli unionisti: macchiati da recenti scandali economici ma soprattutto colpevoli, anche agli occhi della propria base, di aver sostenuto il «leave» sebbene l’economia e il tenore di vita del Nord Irlanda abbiano ben poco da guadagnare dall’uscita dall’Unione europea.
In questo difficile contesto, le confessioni irlandesi faticano a smarcarsi dall’agone politico, perché l’appartenenza del Nord Irlanda al Regno Unito affonda le sue radici storiche nell’identità religiosa. Nel corso di una campagna elettorale esacerbata da toni senza precedenti, tutte le chiese irlandesi hanno sentito il dovere di moltiplicare i loro appelli al buon senso della politica nel suo insieme. Un coro che nel nome della pace ha messo insieme presbiteriani, metodisti, anglicani e cattolici; ma all’interno del quale esistono e si distinguono diverse voci. Intervistato dall’Agenzia Nev, l’ex moderatore della chiesa presbiteriana del nord Irlanda Norman Hamilton ha definito la Brexit «un problema economico privo di implicazioni religiose»: ciononostante, nella sua analisi la non negoziabilità dell’appartenenza del Nord Irlanda al Regno Unito e l’irresponsabilità dei cattolici nell’aver causato «elezioni anticipate che nessuno voleva» rimangono due punti fermi. Due punti fermi «di parte», come «di parte» è, se letto per intero, il documento che i vescovi cattolici del Nord Irlanda hanno pubblicato prima del voto. Diviso in due sezioni – una riflessione pastorale e dieci domande dirette ai candidati relative anzitutto a questioni etiche (aborto e matrimonio omosessuale in primis) – questa sorta di programma confessionale poneva al centro il problema della segregazione confessionale in Nord Irlanda: per quanto concerne l’educazione e le scuole cattoliche, ma anche relativamente al tema della povertà, acuito dalle «politiche di austerità imposte da Westminster». Degna di nota è poi l’acrobazia dialettica cui i vescovi hanno affidato il loro pensiero sulla Brexit: «Nel contesto dell’imminente fuoriuscita del Regno Unito dall’Unione europea, il bisogno di una forte società civile e di un approccio collegiale, che coinvolga tutta l’Irlanda, sono più urgenti che mai se vogliamo che le conquiste degli anni passati non siano dissipate». Un’affermazione molto lontana dai toni roboanti con cui diversi esponenti del Sinn Féin invocano un nuovo referendum per l’unione di tutta l’isola, ma che di fatto non sconfessa l’ipotesi.
In conclusione, poche sono le certezze, ma in Ulster si profila un’estate calda. Qualora il Sinn Féin e il Dup non riuscissero ad appianare le divergenze per formare un nuovo esecutivo, gli Accordi del 1998 affiderebbero a Londra il governo dell’Irlanda del Nord. Un meccanismo istituzionale che in questi vent’anni di pace interreligiosa è già scattato diverse volte. Ma ieri le due Irlande erano sorelle integrate nell’Unione europea. Oggi la Brexit promette di trasformare il confine tra Dublino e Belfast in una frontiera esterna dell’Unione. Tanto per intenderci, come quella che vige tra Polonia e Ucraina.