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Riflettiamo su cosa è il culto a Dio

Intelligenza Artificiale: le nostre chiese dovrebbero concentrarsi su cosa ci si attende da un culto cristiano

L’articolo del 26 giugno scorso “In Germania il primo culto gestito dall'Intelligenza Artificiale” è probabilmente uno di quelli che hanno sollevato più reazioni sui social network e anche nelle chiacchierate fuori dal culto domenicale. A chi fosse sfuggito, l’articolo riporta che «Venerdì 10 giugno, nella cittadina bavarese di Fürth è stato recitato il primo sermone non da un predicatore in carne e ossa ma dall'intelligenza artificiale di ChatGpt».

Più che il fatto stesso, è interessante che l’evento abbia provocato tanti commenti. A tal proposito, umanamente intelligente è stata la redazione di Riforma che il 6 luglio ha partorito l’idea di chiedere un commento proprio all’IA.

La maggior parte dei commenti online rientrano nella dicotomia che Umberto Eco definiva degli apocalittici (es. «l’autentica essenza dell’abominio») e integrati (es. «un buon sistema per avere una parola intelligente vista la carenza di predicatori»… forse più sarcastico che integrato).E i presenti? Secondo l’articolo, «hanno avuto reazioni contrastanti, con la maggior parte delle opinioni che vanno dal negativo all’insoddisfatto».

La domanda su cui dovremmo discutere non è tanto se un culto possa essere gestito dall’IA, quanto cosa ci si aspetta da un culto cristiano. Questa riflessione è urgente. Già era emersa durante la pandemia, quando discutevamo della natura dei vari culti in modalità telematica; poi siamo generalmente tornati alla “normalità” (anche se molti partecipanti al culto mancano ancora all’appello) e abbiamo smesso di parlarne. Ma ne abbiamo mai veramente parlato?

Infatti, è come se dovessimo re-imparare a discutere collettivamente, perché sembra che non andiamo insieme nel profondo delle questioni e che tutto si risolva nel classico dialogo tra sordi, espressione impropria per dire che siamo più interessati ad ascoltare noi stessi che a interagire con l’opinione altrui.
Ad esempio, una delle critiche lette (tra l’altro le più possibiliste) riguardava la mancanza di empatia. Eppure, dovremmo essere consapevoli che due terzi del cristianesimo non ricercano empatia nel culto. La maggior parte delle chiese (e aggiungiamo moschee e sinagoghe) hanno culti fondati su pressoché immutabili e antiche liturgie e mantra. Lo scopo è porre i fedeli di fronte al Totalmente Altro, di cui la liturgia è segno e simbolo. L’empatia non è l’obiettivo del celebrante, ma semmai del fedele.

Certo, la Riforma ci ha abituato ad altro e per un predicatore la mancanza di empatia può essere un problema. D’altra parte, predichiamo in radio, in tv, nei social e nei podcast: quanta empatia può esserci, ma soprattutto quale empatia?

Ovviamente, da protestante preferisco un culto con predicazione evangelica. Ma pensiamo a quante persone si prendono una “vacanza” dal culto perché c’è il predicatore locale, o a quanti smettono di frequentare la chiesa perché non gradiscono il pastore. Pensiamo alle sorelle e ai fratelli che dicono: «Preferisco stare a casa… prego per conto mio… prego tanto e leggo la Bibbia: va bene lo stesso?» L’empatia dà una risposta, ma la dottrina ne dà un’altra!

Pensiamo, inoltre, allo schema classico delle nostre liturgie, dove chi predica usa le proprie parole per annunciare la Parola, mentre chi ascolta risponde con parole non proprie, perché prese dagli inni.

Un’altra questione su cui dibattere è il ruolo del pastore o, meglio, il ruolo del prossimo tout court nella chiesa e nella vita. Cosa abbiamo da dire a riguardo? Dieci anni fa, nel film Lei di Spike Jones (NB: i film sono empaticamente più apocalittici che integrati), in un futuro prossimo l’introverso Theodore si innamora dell’IA Samantha, ma col tempo lei gli andrà a preferire altre IA: insomma, se noi ci stanchiamo degli altri umani, prima o poi sarà l’IA a stancarsi di noi.

È bene informarsi sull’Intelligenza Artificiale e approfondirne le enormi opportunità (in campo medico o della sicurezza stradale, per fare degli esempi) e i sensibili rischi (vi rimando al sociologo israeliano Yuval Noah Harari), ma il nostro compito nelle chiese e nei nostri luoghi di discussione non è tanto discettare di IA, quanto piuttosto riflettere su cosa è il culto a Dio.

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