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Imparare a vivere l’attesa

La traccia più “gettonata” per lo scritto di italiano all’esame di maturità citava l’ossessione per l’istantaneità: la Bibbia ci insegna che aspettare significa continuare a sperare anche se mancano segnali di speranza

Tutta la nostra vita è costellata di piccole e grandi attese. L’attesa ha a che fare con la nostra percezione del tempo, con il desiderio, con la pazienza, con la speranza; è argomento assai complesso con il quale nel corso dei secoli si sono misurati scrittori, filosofi, poeti, teologi.
Proprio il tema dell’attesa, in un tempo in cui l’informazione è accelerata, e i nostri rapporti interpersonali, sociali, lavorativi sono dettati dalla velocità delle tecnologie digitali, è stato al centro della traccia del tema di italiano più scelta dagli studenti all’esame di maturità (ben il 43,4% di circa 536.000 maturandi). La traccia ha preso spunto da un articolo del giornalista e critico letterario Marco Belpoliti, apparso su La Repubblica nel 2018 dal titolo «Elogio dell’attesa nell’era di WhatsApp».

In un’epoca, la nostra, caratterizzata dall’iperconnessione e dalla rapidità, non c’è spazio per l’attesa. «Non sappiamo più attendere. Tutto è diventato istantaneo, in “tempo reale”, come si è cominciato a dire da qualche anno. La parola chiave è: “Simultaneo” – scrive Belpoliti –. (…) Chi ha oggi tempo di attendere e di sopportare la noia? Tutto e subito. È evidente che la tecnologia ha avuto un ruolo fondamentale nel ridurre i tempi d’attesa, o almeno a farci credere che sia sempre possibile farlo».

Gli strumenti tecnologici hanno senz’altro cambiato il mondo del lavoro, hanno accorciato le distanze che ci separano, ci hanno permesso di resistere all’impatto della recente pandemia. Ma la qualità del nostro tempo è migliorata? Durante il lockdown siamo stati obbligati a rallentare i ritmi delle nostre giornate, e abbiamo creduto che quell’evento epocale fosse un’opportunità per rivedere i nostri stili di vita, il lavoro, le relazioni sociali, il nostro rapporto con il pianeta. In realtà, appena le restrizioni sono cessate, abbiamo subito ricominciato a correre, a progettare, a riempire le nostre agende, lamentandoci di non avere abbastanza tempo per realizzare tutto. In questo turbinio, il tempo non va sprecato e l’attesa è una perdita di tempo. Ma «aspettare è ancora un’occupazione – scriveva Cesare Pavese –. È non aspettare niente che è terribile».

Nella società del “tempo reale”, sempre alla ricerca di risposte veloci, visualizzazioni immediate e like, non sappiamo immaginarci un orizzonte più ampio, e riduciamo i nostri desideri a bisogni da soddisfare il prima possibile. Attendere significa invece imparare a riconoscere che la nostra esistenza è fragile, fatta di battute d’arresto, di piccole cose, di silenzi. «Aiutaci a contare i nostri giorni», prega l’antico salmista che ricorda a noi e alle nostre chiese di dare più valore al tempo che alle tante cose da fare. L’attesa è il tempo in cui impariamo a discernere quali sono le priorità nella nostra vita, a coltivare la pazienza e a credere che più importante della meta è il percorso che stiamo facendo e con chi ci accompagniamo.

Vivere l’attesa significa darsi il tempo perché, in maniera inattesa e misteriosa, possa compiersi l’incontro con l’altro, l’altra, l’Altro. Attendere non è segno di passività, ma significa essere vigili come le cinque vergini della parabola che nel buio della notte tennero accese le lampade in attesa del ritorno dello sposo (Mt. 25, 1-13). In un tempo senza grandi attese e nessun segnale di cambiamento all’orizzonte, attendere significa continuare a sperare nonostante non si intraveda alcun motivo di speranza.

In questo mondo in cui imperversa la cultura del “tutto e subito”, e in cui nutriamo la pretesa di controllare e possedere il tempo, tutti e tutte (adulti e adolescenti!) dovremmo imparare a vivere l’attesa, che non è spazio vuoto ma stagione della vita in cui prenderci cura delle relazioni, avere a cuore ciò che è essenziale, e riconoscere con gratitudine che i nostri giorni sono nelle mani di Dio. Le chiese cristiane possono essere facilitate in questo compito, dal momento che sono il popolo di coloro che vivono aspettando con pazienza e fiducia il ritorno di Cristo. La sapienza biblica attesta che l’attesa cristiana si fonda su un Dio che è fedele alle sue promesse, trova significato nell’amore per il prossimo e ha i colori della speranza. Sapremo, allora, come i servi della parabola, con i fianchi cinti e le lampade accese (Lc. 12, 35), attendere il ritorno del Signore, sperarlo e desiderarlo con tutto il cuore?

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