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Dialogare con le minoranze: si può

Eccessi della censura e atteggiamenti innovativi nell'attività culturale

Il dibattito avviato sull’odierna sensibilità del “politicamente corretto” vorrebbe sensibilizzare ed educare il linguaggio per evitare atteggiamenti – e talvolta etichette cariche di violenza simbolica – che possono risultare razzisti, sessisti o offensivi verso persone che non tanto e non solo rappresentano una categoria, come spesso si sente dire quando si parla di minoranze, ma che ci ricordano piuttosto il carattere pluralista di una democrazia costituzionale matura in cui le persone nella loro diversità e sensibilità devono essere rispettate. In tali democrazie, si presta attenzione e ci si interroga sui bisogni di riconoscimento delle persone che non sempre sono rappresentate adeguatamente nello spazio pubblico e meno ancora nel dibattito che ivi ha luogo.
Anni fa si sarebbe messo l’accento sulla questione della rappresentazione e del riconoscimento delle diversità, oggi il clima generale è inficiato dalle cosiddette “guerre culturali” che già nell’espressione denotano un dibattito più divisivo, contrastivo e polarizzato che mette in luce solo gli opposti della questione, spesso drammatizzati nelle loro conseguenze e ancor più spesso alimentati da timori allarmistici che portano, come spiega Eva Valvo, a drammatiche censure. Tali vicende potrebbero infatti stimolare occasioni di confronto e di riflessione critica in quanto le differenze culturali sono sempre contrastive ma se incorniciate in un contesto di dialogo interculturale aperto e progressivo, che apprezza le sfumature di significato in un clima di mutuo rispetto, si possono scoprire le vie inedite e più produttive delle relazioni interculturali.
Se pensiamo ad alcuni episodi anche recenti, ci viene da liquidarli come delle stupidaggini, senza considerare che un confronto avrebbe smorzato le accuse esagerate di uso di immagini troppo esplicite al limite della pornografia, come nel caso della preside licenziata in Florida per aver mostrato il David di Michelangelo a una classe di alunni e alunne di 11 anni, durante una lezione di storia dell’arte. Le reazioni in Italia si fecero sentire e misero in luce la grande ignoranza di chi scambia l’arte e la pornografia, e la preside licenziata venne ricevuta alla Galleria dell’Accademia di Firenze nel tentativo di riaffermare le giuste proporzioni della questione, come riportato da Arte Magazine.
Che cosa ha da insegnarci l’antropologia culturale in situazioni come quelle descritte? Tim Ingold, in un agevole libretto dal titolo Antropologia. Ripensare il mondo (Meltemi 2020), dopo un excursus in cui ricostruisce la storia della disciplina nelle sue implicazioni con il colonialismo e con lo sfruttamento culturale delle popolazioni non europee, mette l’accento sui musei etnografici sparsi in Europa e in America, che oggi si stanno ripensando come musei del mondo: a esempio quello di Vienna si chiama proprio Weltmuseum e l’ho visitato nel 2022, poco tempo dopo l’apertura del nuovo allestimento. Le considerazioni di Ingold rafforzano l’urgenza della riflessione critica degli ultimi trenta anni volta a creare consapevolezza sul rischio della riproduzione di tali stereotipi etnocentrici e sull’impegno attivo a modificare il contesto di produzione del sapere antropologico all’insegna dell’incontro etnografico e del dialogo interculturale.
Che cosa abbiamo imparato negli ultimi trenta anni di pratiche dialogiche e interculturali in diverse parti del mondo? L’indicazione che ne emerge è di ripensare il mondo “con le persone”, all’interno di una cornice contrassegnata dall’etica della cura. Emerge cioè il tentativo di fare spazio a visioni del mondo differenti e ad aspettative di mutuo riconoscimento, anche attraverso pratiche di riconciliazione. Non mancano gli esempi di musei etnografici che hanno dovuto affrontare vigorose proteste come quelle scaturite dall’allestimento della mostra «Into the heart of Africa» al Royal Ontario Museum di Toronto, nel 1989. La profonda ferita rimase congelata negli anni fino a quando non si trovò il coraggio di riesaminare le cicatrici che erano ancora vive, aprendo uno spazio di confronto in cui le molteplici voci potessero esprimersi e dare indicazioni su come reimpostare i futuri allestimenti, nel segno del coinvolgimento attivo delle collettività immigrate e afro-discendenti, con il contributo decisivo di antropologi indigeni.