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Non sono un rifugiato, sono un architetto

Tra due settimane una delle persone arrivate in Italia con i corridoi umanitari, Fadi Sayes, discuterà la sua tesi di laurea magistrale a Roma. Abbiamo provato a raccontare il suo percorso, prima di questo traguardo

La prima cosa che mi dice Fadi Sayes è che lui non la vuole l’etichetta di rifugiato e basta. Lui si sente un architetto, soprattutto, in particolare in questo momento della sua vita, a pochi giorni dalla discussione della sua tesi di laurea magistrale.

«Sono nato nel 1993 e cresciuto in Siria, ad Aleppo – racconta – e nel 2017 mi sono trasferito in Libano da solo, dove sono stato per un anno e 8 mesi, fino all’incontro e all’opportunità dei corridoi umanitari della Federazione delle chiese evangeliche in Italia. Sono partito per cercare un futuro migliore».

Come per il discorso delle etichette, la storia è più complessa di quanto sembra. Sayes non ha fatto il servizio militare, anche i colloqui con l’ambasciata, preliminari per il percorso, non sono andati subito a buon fine, e ha vissuto con altri ragazzi, in Libano, nella città di Jounieh, “in una casa piccolissima”. Il suo livello di istruzione era già alto, prima di arrivare in Europa. «Ho preso una laurea equivalente alla vostra di primo livello in Siria, ma lì il percorso si fa in 5 anni ed è ingegneria ed architettura insieme».

Nel 2019 il viaggio dal Libano all’Italia, coi corridoi umanitari, e la prima accoglienza in Sicilia, a Vittoria, in provincia di Ragusa, presso una delle strutture della Diaconia valdese, con altri ragazzi siriani, dove trascorre 8 mesi, poi arriva a Roma, un mese prima dell’inizio del primo lockdown. L’impatto con la Capitale, in mezzo alla pandemia. Ha vissuto presso la struttura dell’Esercito della salvezza, nel quartiere universitario di San Lorenzo, dal 2021 ospite della casa degli studenti, dopo aver vinto una borsa di studio della Regione Lazio.

«Nell’ultimo anno – continua – sono stato tre mesi a Ferrara, la città che è anche l’argomento della mia tesi, un mese a Berlino, dove vivono mio fratello e mia sorella».

Sayes discuterà la sua tesi in architettura alla Sapienza di Roma, una tesi in progettazione tecnologica e ambientale per la rigenerazione urbana, tra pochi giorni, il 24 maggio. Ha una media del 28,4, spera di prendere 110 e di giocarsi la lode. Intanto, mentre aspetta questa giornata, cerca lavoro e si prepara, «dovrò fare l’esame di stato», per iscriversi all’Albo degli Architetti in Italia.

Si informa, legge, anche della mobilitazione di questi giorni contro il caro affitti, lanciata dagli studenti a Roma e Milano, «appoggio la protesta». Ma si sente «fortunato».

Su 25 studenti della sua classe, all’università, 3 erano gli stranieri, 2 cinesi e un siriano e tutte le lezioni erano in italiano. «Ho avuto difficoltà con diritto urbano», spiega (anche se poi all’esame ha preso 28).

Torniamo alle etichette. Come ha capito che quella di rifugiato non è sufficiente o esaustiva? Come ha elaborato questa consapevolezza? «Perchè ho capito che per gli italiani dire di essere un rifugiato significa pensare a una persona debole, che non ha forza…Io ho un sogno, ho degli obiettivi e li ho sempre avuti. Non voglio essere identificato con una guerra che non è colpa nostra, non è responsabilità del popolo siriano e non l’abbiamo voluta. Vorrei che si pensasse a chi migra come a una persona, che può anche essere più brava o competitiva o efficace, sul lavoro, ad esempio, di chi non ha una guerra alle spalle».

Qual è la prima volta che l’hanno fatta sentire un rifugiato, che ha percepito questo bias cognitivo sulla condizione migrante?

«Ero arrivato da poco in Italia, ero in una biblioteca, a studiare, in Sicilia. Una ragazza mi inizia a parlare, le dico che sono siriano, immigrato. E lei mi ha chiesto se sono arrivato su un barcone. Con lei è nata un’amicizia ma in quel momento mi sono reso conto di cosa significasse dire che sono un rifugiato».

Lo dice senza alcun livore, solo con grande consapevolezza. «Io mi sono salvato – conclude -, altra gente è morta, gente che conoscevo, e gente che non conoscevo, in Siria. E io sono morto dentro, in quella guerra. Ma questa è una vita nuova, per me, è una cosa gigante, e vi dico grazie».

I #corridoiumanitari sono un progetto pilota portato avanti dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei), dalla Tavola valdese, dalla Comunità di Sant’Egidio, nell’ambito di un Protocollo d’intesa concordato con i Ministeri dell’Interno e degli Affari Esteri. Permettono a persone fuggite dal loro paese e in condizione di vulnerabilità, di accedere al loro diritto di chiedere asilo usufruendo di vie legali e sicure. Per le chiese protestanti il progetto è finanziato in larga parte dall’Otto per mille della chiesa valdese.

Da Nev-Notizie Evangeliche

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