Agire, con cura
06 marzo 2023
Al 32mo convegno della diaconia si è parlato del cosa ma soprattutto del come dell’azione diaconale, tra professionalità e umanità
«Con cura»: Un tema quasi obbligato, quello del XXXII Convegno della Diaconia (Firenze, 4 marzo), tenutosi totalmente in presenza nell’aula magna dell’istituto Gould, con la partecipazione di un’ottantina di persone, soprattutto operatori e operatrici (anche di istituti diaconali valdesi e metodisti che non fanno parte della Csd, come quelli siciliani).
Una tema legato al vissuto degli ultimi tre anni, con la pandemia, ma soprattutto allo specifico della Diaconia, che ha nella cura una delle sue basi: cura non solo come insieme di procedure terapeutiche volte a guarire o alleviare i sintomi di una patologia o di una condizione problematica, ma anche, forse soprattutto, cura come attenzione.
Come sottolineato nel suo saluto dall’assessora all’Educazione, welfare e immigrazione del Comune di Firenze, Sara Funaro la cura non è solo verso i bisognosi ma “cura delle comunità”, delle relazioni, della responsabilità collettiva. E quindi cura come attenzione alle persone e ai dettagli, hanno raccontato Alice Squillace (corridoi umanitari diffusi), Laura Carletti (housing sociale a Torino) e Marcello Galetti (Diaconia valdese Valli, parlando dei progetti sulle demenze). I tre intensi interventi “dal campo” hanno messo in luce l’importanza di aspetti quotidiani, apparentemente piccoli, per «proporre interventi appropriati»: le parole rivolte a una persona con demenza; la scelta dell’arredamento di una casa protetta; le misure delle porte o la presenza di un ascensore nell’alloggio scelto per un rifugiato disabile.
La cura nelle azioni (il titolo del convegno era infatti «Con cura» e non «La cura», a indicare non tanto il servizio quando il modo con cui lo si fornisce) va oltre la professionalità degli operatori e dei servizi, è stato sottolineato più volte: è una qualità umana che caratterizza l’azione della diaconia. L’altro aspetto, in effetti il primo, è quello della testimonianza evangelica: filo conduttore del convegno è stato la parabola del buon samaritano, spesso banalizzata e ridotta a luoghi comuni, ha osservato la moderatora della Tavola valdese Alessandra Trotta nella meditazione iniziale, in un mondo in cui «il bene viene considerato “buonismo”, inapplicabile, dimenticando il messaggio rivoluzionario e dirompente del Vangelo». Quale aiuto fornisce il samaritano? Quello immediato, emergenziale, ma anche quello a lungo termine. “Il pesce ma anche la canna da pesca”, per citare un’immagine ricorrente nella mattinata.
Un aiuto, quello del samaritano, che forse oggi sarebbe perseguito, ha commentato il pastore Francesco Sciotto, presidente della Csd, «in un clima di criminalizzazione di chi aiuta gli altri»: e ha ricordato che «dal 2015 a oggi abbiamo accolto tramite i corridoi umanitari 1108 persone, il 18,5% del totale europeo. Abbiamo quindi titolo per parlare del modello che abbiamo adottato, e crediamo sia importante ribadire che organizzare questi arrivi non è qualcosa di diverso (o alternativo) dal salvare le persone in mare, come è loro diritto».
L’aspetto umano è emerso da tutti gli interventi: l’operatore si mette in gioco nel rapporto, pur professionale, con la persona “assistita” (che sia un minore non accompagnato, una donna vittima di violenza, un anziano), un rapporto in cui entrano anche i vissuti delle persone, che ne saranno influenzate, soprattutto se il rapporto si protrae nel tempo.
Legato a quest’ultimo aspetto, sono stati citati due elementi fondamentali nel percorso di cura, rispettivamente dallo psicologo e psicoterapeuta Roberto Locchi in apertura e da Pietro Vené, responsabile Area minori della Diaconia valdese fiorentina, nell’intervento conclusivo: la “giusta distanza” e il “saper lasciare andare”.
La ricerca della prima è difficile, ha ammesso Locchi, e riguarda in fondo tutti i rapporti umani, non solo quelli di aiuto e cura: l’empatia, il mettersi nei panni dell’altro, non deve diventare immedesimazione. Bisogna mantenere la consapevolezza dell’altro da me, senza dimenticare se stessi.
Le relazioni di cura però si concludono, ha ricordato Vené: gli esiti sono diversi, tra l’adolescente che trova la sua strada nella vita adulta, il migrante che prosegue il suo viaggio, o l’anziano che cessa di vivere: «Cura significa anche (soprattutto con i giovani) dare loro gli strumenti per fare a meno di noi; bisogna imparare ad avere, in tutte le situazioni, la capacità di lasciarli andare».
Condizione imprescindibile, e punto di partenza di questo percorso, è quanto ha spiegato il pastore Winfrid Pfannkuche, intervenuto a nome della Facoltà valdese di Teologia, co-organizzatrice del convegno insieme alla Fgei, Federazione giovanile evangelica in Italia, che ha curato i laboratori del pomeriggio, facendo immergere i presenti in alcuni casi reali di persone che hanno ricevuto o meno cure adeguate per i loro problemi. Mettendo in pratica quello che all’inizio della mattinata, parlando del “vedere”, ha spiegato il pastore Pfannkuche: quale tipo di vista ha usato il samaritano, a differenza degli altri passati prima di lui? Una vista empatica, diremmo oggi, un vedere non puramente ottico, sensoriale, ma che si lascia coinvolgere. Un vedere che non passa oltre, ma ha compassione, si ferma, fa qualcosa che non ci si aspetta. Rompe gli schemi e agisce prendendosi cura.