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Usare i dispositivi informatici in maniera responsabile

È in corso, all’interno del progetto “In-dipendenze” di cui è capofila il Centro Diaconale La Noce – Istituto valdese di Palermo, un lavoro con gli studenti di alcuni istituti scolastici. Ne parliamo con due educatrici, responsabili del progetto

Nel maggio 2022 è partito nella città di Palermo il progetto “In-dipendenze” che sperimenta un modello territoriale di prevenzione e presa in carico dedicato a minori che presentano disturbi da dipendenza da internet o dovuti all’uso eccessivo dei dispositivi tecnologici. Capofila del progetto, sostenuto da Fondazione con il Sud, è il Centro diaconale La Noce – Istituto valdese.

Lo scorso ottobre, all’interno del progetto, è iniziato il lavoro con alcuni istituti scolastici che mira a orientare gli studenti all’uso responsabile e consapevole dei dispositivi informatici e della rete. Nello specifico studenti e studentesse di scuola primaria e di scuola secondaria di primo e secondo grado, con i loro insegnanti hanno la possibilità di acquisire competenze che diventeranno patrimonio permanente della scuola. Nel progetto sono coinvolte 24 classi delle circoscrizioni I, II, V e VIII del Comune di Palermo equamente divise in: 8 classi di scuola primaria, 8 classi di scuola secondaria di primo grado, e 8 classi di scuola secondaria di secondo grado. In totale sono previsti 7 incontri: 3 nella prima annualità e quattro nella seconda.

Ma qual è il paradigma operativo e di pensiero che viene messo in campo durante gli incontri? Lo abbiamo chiesto alle dottoresse Giuliana Giudice e Giusy Raso, educatrici del Centro diaconale La Noce – Istituto valdese.
Giuliana Giudice: «Prima di intraprendere il progetto, abbiamo cercato di scongiurare un pregiudizio intergenerazionale secondo cui le nuove generazioni sono più problematiche rispetto a quelle che le hanno precedute. Spesso infatti etichettiamo erroneamente i nativi digitali con connotati negativi. Per non entrare in classe con un piede sbagliato, abbiamo dunque riflettuto su come sviluppare al meglio una delle sfide più importanti di oggi, cioè il rapporto con le nuove tecnologie, trovando un dialogo reale con questi ragazzi, evitando una demonizzazione del dispositivo e del mondo digitale, e fornendo delle life skill (insieme di abilità sociali, cognitive e personali che consentono di affrontare positivamente le richieste e le sfide che ci riserva la vita quotidiana, ndr) per far fronte a situazioni e dinamiche che si determinano in queste dimensioni. La prima tappa del progetto con le classi ha previsto un lavoro sulla consapevolezza del sé: nella pratica abbiamo riproposto le esperienze vissute nel mondo virtuale senza la mediazione strumentale dello schermo. I ragazzi hanno cercato di capire chi sono in quel mondo, come si rappresentano, come si identificano, e se la propria rappresentazione reale corrisponde a quella virtuale».

– Rispetto alla definizione del sé, quali dati avete raccolto finora?
Giusy Raso: «La consapevolezza di sé cambia con l’età dei ragazzi. Alla scuola primaria a esempio (età 10/11 anni), i bambini hanno maggiore consapevolezza di se stessi nel mondo virtuale: giocano di solito con gli stessi amici con cui condividono la quotidianità; invece i ragazzi più grandi temono molto il modo in cui gli altri li vedono e li percepiscono, temono di più il pregiudizio: sono molto attenti infatti a come si vestono, a come si mostrano. Se alla scuola primaria prevale l’uso dei videogiochi, dalla scuola media in poi prevale invece l’uso del social (Instagram, TikTok)».

Giuliana Giudice: «Aggiungo che abbiamo avvertito una grande fragilità nei giovani. Soprattutto nella fase dell’adolescenza c’è tanta solitudine e tanta paura di non essere accettati. In quel grande contenitore che è il mondo virtuale, capita che il ragazzino più vulnerabile, apatico, più isolato rispetto al gruppo, diventi vittima di bulli. Nei laboratori che stiamo facendo nelle scuole, riproponiamo di vivere le esperienze del mondo virtuale fuori dallo schermo. Il secondo ciclo di laboratori, a esempio, sarà dedicato a un’altra life skill, la gestione delle emozioni: attraverso alcune tecniche, tipo il role playing, i ragazzi si ritroveranno a riflettere su che cosa provano quotidianamente, che cosa li spinge a collegarsi online, a stare in rete, a pubblicare cose piuttosto che altre. Lo scopo di questo secondo ciclo di incontri è aiutare i ragazzi a conoscere, nominare, riconoscere le proprie emozioni e a favorirne la manifestazione».

– Nella prima fase del lavoro svolto nelle scuole, sono emerse le pericolosità legate al mondo della rete?
Giuliana Giudice: «Purtroppo i ragazzi hanno poca consapevolezza che quel mondo può essere insidioso! In maniera graduale la consapevolezza aumenta nei diversi ordini e gradi. La cosa che va segnalata è che il fenomeno investe diversi contesti culturali in maniera trasversale. In alcuni ambienti già deprivati, il controllo da parte dei genitori sull’uso che i ragazzi fanno dei dispositivi elettronici non c’è, perché ci sono altre problematicità da considerare. Abbiamo incontrato ragazzini che passano la notte intera fino alle 6 del mattino davanti a TikTok, scrollando lo schermo in continuazione, o bambine piccole, ma già adultizzate, che si fanno riprendere in situazioni private, intime. In generale registriamo una totale assenza da parte degli adulti: si dà per scontato che il ragazzo, il bambino si possa gestire in autonomia. Il problema è che sono proprio i genitori a essere intrappolati per primi nella ragnatela dei dispositivi elettronici: non ascoltano più né danno risposte ai figli e quando vengono interpellati non rispondono perché sono impegnati a chattare, a giocare online, a guardare Instagram… Vi è un’assenza enorme».

– Nel progetto sono coinvolti anche i genitori?
Giusy Raso: «Sì. Nella scuola primaria la presa in carico ambulatoriale è rivolta esclusivamente ai genitori, perché si è sperimentato che con i bambini così piccoli (10 anni) è importante lavorare con i genitori sul fronte dell’educazione. Mentre per le medie e le superiori, la presa in carico riguarda sia i ragazzi sia le famiglie: si lavora in équipe su alcune dinamiche, modelli educativi, e anche su alcune strategie per favorire e promuovere l’educazione ai media, anche per ridurre i fattori di rischio».

Giuliana Giudice: «Purtroppo registriamo una bassa partecipazione dei genitori ai laboratori, questo perché da un lato c’è una crescente sfiducia verso la scuola, dall’altro la scuola sembra essersi progressivamente allontanata sempre più dalle famiglie. Sono ormai poche le occasioni in cui i genitori incontrano fisicamente l’istituzione scuola. È importante far ritornare anche fisicamente i genitori a scuola, dove intessere un dialogo con i docenti sulla crescita del proprio figlio».

Giusy Raso: «In conclusione vorrei sottolineare che i laboratori sono rivolti alle classi delle scuole partner del progetto, mentre l’ambulatorio è gratuito e aperto al territorio, dunque tutti – non solo gli alunni delle classi coinvolte – possono accedervi su segnalazione telefonica. Durante le tre annualità del progetto il nostro obiettivo è che i ragazzi utilizzino i dispositivi elettronici in modo consapevole e responsabile, senza demonizzare lo strumento».

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